Quaderno n. 2 L’azzurro e le pietre.

Una lettura delle poesie e delle riflessioni ispirate dalle opere di Pierluigi Cappello, accompagnate dalle poesie scritte dalle partecipanti a La stanza della poesia

La poesia ridiviene azione (come scriveva Pasolini) in colui che la legge. È la restituzione all’individuo della sua individualità e della sua capacità di fare. E ogni verso, considerato in questo modo, è quella linea di tensione che si produce tra il testo e la sua interpretazione. Né l’inizio né la fine, insomma, ma ciò che sta in mezzo, la vita che ne tiene conto. È questo ostinato richiamo all’in-dividuo, questo continuo azzardo che poggia su basi scientifiche franose, questo rapimento dello sguardo nel mondo della possibilità che fa della poesia l’antagonista disarmata del contemporaneo.
Per conto mio, mi ingegno di resistere, per lo più leggo e qualche volta scrivo. Scrivere versi è preparare con ostinazione e con cura il proprio fallimento, portarne tutto il peso, non un milligrammo in meno.

 

ZINA BORGINI

Le nove, la sera, e un poco il nero che ti sporca le mani
è tutta la terra passata di qui
a che ora le api vanno a dormire, pensi, ti chiedi,
premi il cavo del palmo sull’orlo del ginocchio
nel dirti senti come sono nuove le foglie .. P. Cappello

… Un poeta che coglie e raccoglie, ascolta e fa risuonare dentro di lui, luce, alberi, vento, foglie, pioggia, nuvole, lo scoppiettare silenzioso e perpetuo della vita. E, a ben guardare, è sempre il racconto di un incontro, di uno scambio amoroso di gesti, un riconoscersi dentro ad una relazione con qualcosa di immenso e piccolissimo, nuovo ed antico, nello scorrere inarrestabile della vita come il donarsi della carne al vento, del vento alla carne, del poeta alla storia. (cit. Elena Cesari)

La poesia di Cappello che raccoglie le parole, terra, api, carne, vento, e le parole di Elena Cesari mi hanno stimolato a comporne una che contemplasse la natura in tutti i suoi aspetti emozionali.

Omaggio a P. Cappello

Un buon pensamento
fuggire dalla città bollente
e rifugiarsi nella campagna che conforta.
Qui si sosta nel quieto far nulla
oppure si procede in quello che piace.
Guardare il paesaggio
di verdi complementari
e le verticali mutanti degli alberi
le siepi di gigli dai lunghi steli
e quelle delle camelie
in fila cresciute ai cigli.
Come un’armonia concertata
il frinire dei grilli,
i covoni a rotoli imponenti
rompono di giallo paglia
l’erba che si rinnova.
La brezza una carezza leggera dal bosco.
Al di là dei monti un mare popolare
mi attende invano …
Dalla cucina arrivano profumi invitanti.

Poi l’occhio si fa sull’orizzonte
il pensiero si dilata
i ricordi germogliano nell’infinito cielo
così riaffiora un dolore
o una gioia recente …
Ancora di più.
Mi faccio domande
Chi sono nell’immenso mistero?
Il corpo fisico che tocca, che vede,
o l’anima che accoglie il tormento e la pace…
Nella trappola di zucchero e birra
un calabrone sta lottando con la morte imminente…
La sua è anche la mia battaglia?
E tu, che già vivi il riposo del guerriero,
mi stai mandando, in questo quieto silenzio,
segnali di larghi respiri
e promesse eccitanti
dorate come i premi Oscar
sul Red Carpet del fine vita.

Z.B.

 

DANIELA GOBETTI

Scrivere significa togliere il velo alle forme di una verità in ombra, e il lembo di tale mondo nascosto dentro l’apparenza del mondo viene trattenuto soltanto se espresso, premuto fuori, liberato dal silenzio dentro cui è in attesa. L’aprirsi di una realtà nota ad una realtà ulteriore è favorito dalla lingua, accompagnato alla luce quasi maieuticamente dalla lingua, una lingua che il poeta serve e della quale si serve, indotto com’è a considerarla, da sempre, materia e fine a un tempo. La pietra e la statua che vi respira dentro.

XVII
No savarès Donzel
fadìe, no savarès
l’imbast e chel daspâ
e chel tasêmi dentri
intal sec criçulâ
des cuestis, e il zimul
sfuarçâ da lis zimis
lis primis, a Fevrâr;
no savarès tal sanc
nì il cjalt dal cjaminâ
nì il fresc gotâ de polse
no savarès nuealtri
di me se no savès
di me che o soi forest.

Non saprei, Donzel, fatica, non saprei affanno e quello scalpitare e quel tacermi dentro nel secco scricchiolio delle costole e lo sforzo gemello delle gemme, le prime, a febbraio; non saprei nel sangue né il caldo del camminare né il fresco gocciolio della sosta, non saprei nient’altro di me se non sapessi di me che sono straniero. ( Il me Donzel, in Assetto di volo, Crocetti Editore, Milano 2011)

Il poeta
testimone muto
della parola
che si apre la strada
tra
siepi di rovi spinosi
e particelle di polvere di infinito
Nello spazio tra
spina e spina
particella e particella
vive il poeta
come una statua antica in un giardino rinselvatichito
la testa piegata leggermente verso il basso
gli zigomi accentuati dal muschio
le labbra
socchiuse – quel tanto, o poco,
che permette
allo spirito di fuggire
La parola
ancora inespressa
si consolida
sul labbro inferiore
in attesa
del tocco morbido del labbro superiore
Il poeta
ancora muto
attende
che
la statua si risvegli
il marmo diventi carne
lo spirito prenda forma
questa forma
soltanto questa
in questo momento
questa parola

Una parola
che non era apparsa al poeta neppure in sogno

D.G

… io mi affiderò alle parole per raffigurare il suono della neve. Fra tutte, sceglierò le lettere più morbide – la lettera a, la lettera e, la lettera o, la elle la emme la enne – e le parole che ne siano più ricche; poi…confronterò il bianco del foglio col bianco dell’inverno…forse lascerò lo sguardo andare nella neve, lo lascerò libero nel bianco, con la disposizione dell’amante che si lasci annientare dalle carezze di chi è amato ... (La mela di Newton, in Il dio del mare, BUR, Milano 2015,)

 

GIULIA GRIGOLETTO

Ognuno di noi ha il suo porto sepolto dentro di sé: quando io sprofondo nel mio, le prime parole che mi vengono incontro sono quelle della mia infanzia sul colle … Con le parole, piano piano affiorano i luoghi e i volti … E anche se so che il silenzio si declina in molte forme, quello che amo è la cripta d’amore che custodisce e rinnova, dove si scende piano piano, con deferenza, a piedi scalzi. (Ogni sguardo è moltitudine, in Questa libertà, BUR, Milano 2013)
Scendere a piedi scalzi nel silenzio è un presentarsi nudi al suo cospetto, in un gesto di grande apertura e accoglienza, fiduciosi nel fatto che lì, in quella cripta d’amore la linfa della vita si rinnova.
Un nutrimento che sostiene l’azione del poeta, poiché la penna la si conduce, come un capitano conduce la sua nave … un gesto che ha in sé lo spessore dei secoli …(Il tempo che ci vuole, in Questa libertà, BUR, Milano 2013)

Fuori c’è troppo poco cielo per dire domani…

Era un azzurro fresco di primavera
l’esuberanza scorreva nelle vene
lo sguardo fuggente nella frenesia
delle dita sugli oggetti da sfornare a cottimo
fracasso di macchine
offendeva la mente come un pugno
la velocità insediata priva di attenzione
il cielo fecondo di turbolenze
presagiva un dissenso prossimo
a quel futuro imposto
in quel corpo rattrappito
dalle mani in corsa sulla cinghia di trasmissione
pervenne un lampo fulmineo: il taglio
e prossima all’estinzione la voce
impugnò l’oscurità della parola.

G.G

                                                                                                              Come un vaso antico porta l’impronta del suo vasaio,
                                                                                                                 così un qualsiasi dialetto porta in eredità
                                                                                                                  a traccia della società che lo ha espresso.  P. C.
Quei suoni antichi
quei suoni che sapevano di altri mondi …
che ne è stato
di quelle acque sorgive
che hanno impregnato il nascere
dalle quali siamo stati allontanati
un fondale sonoro
disorientata la lingua

G.G

 

 Il futuro è quello che rimane, ciò che resta delle cose convocate

Quell’impalpabile umido
che saliva non tanto alto
facendoci strabuzzare gli occhi
dentro la coltre fissa delle ombre
-avvolgente abbraccio bagnato-
che vorrei tanto ritrovare ora
tra i palazzi fitti fitti che l’hanno dissipato
senza un pensiero per gli alberi sacrificati
senza un grazie per i boschi estinti
e l’acqua che viene sempre meno
quando poi abbonda
non trova freni nel terreno.

G.G

 

MARINA MARIANI

Avrei preferito essere un piccolo merlo che vola via dalla mano piegata a coppa di Kevin per forare il cielo 1
1 Cassacco anno zero, in Ogni giorno, dal cielo alla notte (in Un prato in pendio, BUR, Milano 2018)

Febbraio
Ogni ramo accompagna la sua luce
ciascuno spoglio, ciascuno accolto, raccoglie l’aria
intorno al suo nero, ne spreme la parola
e fa del cielo di febbraio un respirare
dentro e fuori i tuoi polmoni.   P.C.

La scrittura poetica di Pierluigi Capello è una scrittura che porta a me associazioni di pensieri dove la dicotomia mente e corpo, che attraversa il pensiero filosofico occidentale, si apre come buccia d’arancia e mi consente di coglierela potenza del respiro del corpo nel suo esserci. Porta attenzione alla bellezza nel qui e nell’ora.

Silenzio

Bisbiglio d’alberi
come di zucchero filato
ogni ramo è
ora muschio ora argento
Riluce luna
sotto neve d’acque marine

M.M

Stagione

Questa estate con bocca riarsa
attraversa campi giallo ocra
inciampa in pioppi tremuli *
inaspettate sentinelle
Questa estate
regala tramonti che ingannano:
color rosso cuore
non è annuncio di speranza
è uccello di fuoco
parla la lingua dell’anima priva

M.M

 

TERESA MARINIELLO

Io penso – credo di averlo già scritto – che il combustibile dell’espressione sia il nostro brusio interiore: tutta l’attività muta e ininterrotta che attraversa in ogni direzione e in ogni momento il nostro cervello, fatta di aspirazioni, amarezze, illusioni, slanci e immagini di prima, immagini di dopo, domande accennate e subito cadute, risposte esaurite in un sussurro, tutto quello che resta al di qua di noi prima di esplodere, dà una forma al polmone verde delle nostre coscienze, indispensabile per la nostra sopravvivenza quanto lo è la foresta amazzonica per la sopravvivenza del pianeta.

E c’è che vorrei il cielo elementare
azzurro come i mari degli atlanti
la tersità di un indice che dica
questa è la terra, il blu che vedi è mare. P.C

Sera d’estate

Lascio che si faccia da sé.
Il giallo pungente e odoroso dei limoni
e quello incerto e straniero della luna.
Il bisbiglio cauto dei morti,
l’abbaiare sciolto dei cani
rimbalzano sulle crepe dei muri
sui filari di viti
nell’azzurro celeste

T.M

 

MARIA LUISA PARAZZINI

Una descrizione di sé, in cui mi riconosco, mi sovrappongo, comoda nel suo calco:
Così posso dirti che sono cresciuto strattonato tra contemplazione e passione e ho portato in me due persone separate e distinte che hanno faticato a lungo prima di riconoscersi e riconciliarsi, una astratta come un’icona bizantina, l’altra corrusca come un lavoro di Caravaggio.
e un momento autobiografico, ma in sé (di nuovo il Sé), paradigmatico del suo ultra-sentire il rumore del mondo, attorno, da cui difendersi con un … controattacco (o lasciar essere?) poetico:
Scrivere una lettera è un atto di devozione: il primo grande sforzo consiste nello scavare un fossato intorno a noi, alzare le nostra mura merlate e fare di noi stessi un castello, al riparo del quale il tempo possa distendersi a piacere, assumendo la nostra forma, come quando l’acqua prende la forma del recipiente che la contiene.
P.C.

Copertina di un poeta. A Pierluigi Cappello, novembre 2022

La lucciola diurna
ha grandi occhi.
Inutile al mondo
non appare ai molti.
Inutile alla luce,
cancellata nel sole
e gli occhi gli occhi
le pulsano nel cuore.
Dentro ai luoghi soliti di vita
lieve sta il suo battere di ciglia.
Di scatto in scatto
si avvicina al fuoco del sentire,
un frullo indietro,
l’umiltà disperata
di chi ha poco tempo per capire

Ripensare Pierluigi Cappello, novembre 2022

Ho capito qual era la paura
Troppo fratello
Troppo più forte la parola
E lo sguardo senza difesa
Quasi un’arma

 

PATRIZIA PULEIO

L’essere custodito dalle foglie, nascosto al mondo, con l’odore di umido, di linfa nelle radici, mi aveva messo dentro a un’intimità inviolata, un posto dove il tempo sembrava essersi fermato prima di toccarmi, caduto ai piedi del tronco dell’ippocastano. Estrassi il libro dalla borsa e cominciai a leggere
Moby Dick divenne un trampolino. Per tutta l’estate, e per l’estate successiva, presi l’abitudine di leggere sull’albero. Non solo prima di fare il bagno, ma tutte le volte che mi veniva voglia di rintanarmi, valicare i monti e veleggiare seguendo i miei solchi di spuma nelle acque oceaniche.
Così ti penso come una foglia tra i tuoi fogli.
La foglia buca il ramo per spuntare, crescere
e staccarsi fino a cadere.
Il tratto della matita incide il foglio con leggerezza ostinata, fino ad arrivare alla parola, proprio quella, l’unica necessaria e possibile. P.C.

Le parole

Annodammo la nostra infanzia ai capelli delle nuvole
e non fu la pioggia, fummo la pioggia;
la mano dall’uomo ci sradicò dall’aria e lungo i canyon della nostra pelle
attecchì il pensiero;
le nuvole furono scrittura, la nostra voce un nodo sciolto, noi da una parte, da un’altra parte il cielo. 3
3 Le parole, in Porta aperta, in Stato di quiete, BUR, Milano 2016, p. 22.
In volo ( a Pierluigi Cappello )
Dall’alto dell’albero lanci un filo ti fai aiutare dalle foglie dal becco degli uccelli impasti diamanti coi pezzi di vetro li mastichi poi li sputi sulla terra indifferente
dal fondo dell’ombra il tuo filo
parte e sale e va in alto
disegna un arabesco intorno al mondo
atterra sulla porta di casa. Un attimo
il tempo di meravigliarci e già riparte
va in una risata va lontano.
Facciamo un gioco facciamo che mi addormento ragazzo e mi risveglio albero ho radici di marmo che vanno a fondo fino al dolore delle cose
facciamo che mi addormento sasso e che mi sveglio libero ho legato il filo alle foglie mi tiene in salvo
ho tagliato il filo
e volo.

 

SERAFINA TARANTINI

Si è gettati nella propria lingua. Non c’è molta scelta in questo. Personalmente mi sento percorso, attraversato dalla lingua italiana, e nello stesso istante, il mio sguardo è germinato, si è dischiuso al vedere con il friulano. 1
Per secoli lingua senza popoli né nazione, l’italiano ha rappresentato un’idea e sono stati i dialetti, con la loro oltranza espressiva, a farsi le parole delle cose, a portare lo spessore dei corpi, a versarsi nelle città, sporcandosi i passi nel fango delle strade. 2
1 In una scheggia il mondo, in Il dio del mare, BUR, Milano 2015, p. 70.
2 Ivi, p. 71.

Il cielo
cade addosso
gonfio di nuvole inesplose
fluttuanti
nel vento
amorose parole

S.T

 

Illustrazioni: Acquerelli di PATRIZIA PULEIO