Questa pagina è dedicata a tutte le socie e i soci che vorranno riempirla con i loro contributi, siano essi: parole, immagini, poesie o riflessioni stimolate dal non poter fare/andare come prima che si palesasse il “Virus Coronato” (così lo chiamiamo noi poichè come i Re una volta, ora è lui che comanda)
Sarà una pagina di cronaca in tempo reale perchè aggiornata continuamente quindi si riempirà di giorno in giorno per merito vostro..
13 Novembre 2020
Marina Mariani ci segnala questa lettura interessante che riproponiamo qui anche se, purtroppo, è declinata come se l’umanità fosse fatta di soli uomini (segnalazione necessaria per la politica del volto di Apriti Cielo).
Il volto e la maschera
Quello che si chiama volto non può esistere in nessun animale
se non nell’uomo, ed esprime il carattere.
Cicerone
Tutti gli esseri viventi sono nell’aperto, si mostrano e comunicano gli uni agli altri, ma solo l’uomo ha un volto, solo l’uomo fa del suo apparire e del suo comunicarsi agli altri uomini la propria esperienza fondamentale, solo l’uomo fa del volto il luogo della propria verità.
Ciò che il volto espone e rivela non è qualcosa che possa essere detto in parole, formulato in questa o quella proposizione significante. Nel proprio volto l’uomo mette inconsapevolmente in gioco sé stesso, è nel volto, prima che nella parola, che egli si esprime e rivela. E quel che il volto esprime non è soltanto lo stato d’animo di un individuo, è innanzitutto la sua apertura, il suo esporsi e comunicarsi agli altri uomini.
Per questo il volto è il luogo della politica. Se non vi è una politica animale, ciò è soltanto perché gli animali, che sono già sempre nell’aperto, non fanno della loro esposizione un problema, dimorano semplicemente in essa senza curarsene. Per questo essi non s’interessano agli specchi, all’immagine in quanto immagine. L’uomo, invece, vuole riconoscersi e essere riconosciuto, vuole appropriarsi della propria immagine, cerca in essa la propria verità. In questo modo egli trasforma l’aperto in un mondo, nel campo di una incessante dialettica politica.
Se gli uomini avessero da comunicarsi sempre e soltanto delle informazioni, sempre questa o quella cosa, non vi sarebbe mai propriamente politica, ma unicamente scambio di messaggi. Ma poiché gli uomini hanno innanzitutto da comunicarsi la loro apertura, cioè una pura comunicabilità, il volto è la condizione stessa della politica, ciò in cui si fonda tutto ciò che gli uomini si dicono e scambiano. Il volto è in questo senso la vera città degli uomini, l’elemento politico per eccellenza. È guardandosi in faccia che gli uomini si riconoscono e si appassionano gli uni agli altri, percepiscono somiglianza e diversità, distanza e prossimità.
Un paese che decide di rinunciare al proprio volto, di coprire con maschere in ogni luogo i volti dei propri cittadini è, allora, un paese che ha cancellato da sé ogni dimensione politica. In questo spazio vuoto, sottoposto in ogni istante a un controllo senza limiti, si muovono ora individui isolati gli uni dagli altri, che hanno perduto il fondamento immediato e sensibile della loro comunità e possono solo scambiarsi messaggi diretti a un nome senza più volto. A un nome senza più volto.
Giorgio Agamben Giorgio Agamben è filosofo e scrittore. La sua opera è tradotta e commentata in tutto il mondo. Con il progetto Homo sacer ha segnato una svolta nel pensiero politico contemporaneo.
Tra le sue opere pubblicate da Quodlibet: A che punto siamo? L’epidemia come politica (2020), Intelletto d’amore (con Jean-Baptiste Brenet, 2020), Homo sacer. Edizione integrale (2018), Che cos’è la filosofia? (2016), Gusto (2015), Idea della prosa (nuova edizione aumentata, 2002-2013, 2020), L’uomo senza contenuto (1994, 2013), Bartleby, la formula della creazione (con Gilles Deleuze, 1993, 2012).
11 Novembre 2020
Da Doppiozero posto Il bosco e l’asino bianco di Chandra Livia Candiani che ci riporta con la sua complessa semplicità ad attraversare la natura e ad ascoltare le parole che ci sussurra ” Mi ha detto di guardare i ruscelli e imparare a ruscellare…”
In questo paese io vivo così. Mi alzo presto e lavoro tutta la mattina, traduco, scrivo, studio e leggo.
E poi, dopo pranzo, comincio a sentire il richiamo del bosco. Una volta che ho fatto finta di non sentirlo, è arrivata una poiana a mugugnare fin sopra il vicolo dove abito. Ho un testimone. Ho dovuto dire: “Scusa, il bosco è arrivato fin qui a chiamarmi, devo andare.”
Il bosco sta a non più di cinque minuti a piedi dalla cascina in cui vivo. Spero quindi che i vigili saranno clementi. Ha molta acqua, proprio tanti ruscelli, e alberi, soprattutto castagni, e muschio tantissimo. Ci sono anche gli ontani bianchi. E le querce. Poi in primavera ha avuto tanti fiori e foglie da smarrirsi, quasi non lo riconoscevo, perché sono arrivata che era ancora inverno. D’estate è stato zeppo di zanzare e tafani, è stata dura non frequentarlo per un po’, poi ho deciso di portarmi uno zampirone e di sventolarmelo davanti alla faccia e alle spalle, un po’ faticoso, ma me la sono cavata.
Ho visto un sacco di animali finché noi umani dovevamo sparire in casa, ho visto: rospi e ramarri, una cerva, vari cerbiatti, cinghiali e cinghialini, un ratto, volpi, aironi, poiane, ghiandaie, cornacchie e gazze, un serpente. Quasi tutti avevano un punto di domanda negli occhi.
Ora si sta spogliando, il bosco, fa rumore, mi fa fare dei soprassalti. Sono caduti vari alberi per il diluvio. L’albero con cui ho più confidenza, ma una confidenza da scolara a Maestro, è un vecchissimo ciliegio selvatico. Alto che ti fa male il collo a guardarlo e largo, molto largo. Lo abbraccio e appoggio l’orecchio al tronco e dopo un po’ mi lascia degli insegnamenti. Mi ha detto di guardare i ruscelli e imparare a ruscellare. Mi ha detto, dopo una brutta ferita da taglio al cuore, di lasciar salire tutte le memorie e il male e le bruciature, senza spavento perché sarebbero finite presto. Mi ha anche detto nel frattempo di stare ferma, ma come un albero, non come un sasso.
In genere, mi dice di lasciare gli umani sospesi, di non inseguirli in cerca di spiegazioni. Quando non riuscivo più a scrivere perché avevo un killer di precisione che mi sparava alle parole, mi ha detto: “Lasciati essere diversa da tutti quanti.” È tornata la poesia.
Io qui ho solo il bosco, perché non so guidare e quindi faccio casa bosco casa. Non mi sento mai sola. Certi dicono: “Ma fai sempre lo stesso percorso?” Beh no, ce ne sono almeno quattro ma io ne prediligo uno. Comunque, è una corbelleria credere che ci possa essere un sentiero sempre uguale, cambia continuamente ed è una sorpresa a ogni passo. Nel bosco imparo a guardare e ad ascoltare. All’inizio mi ha sgridato molte volte perché ci andavo con in testa un mucchio di persone e guardavo solo dentro di me. Allora ho imparato a lasciare tutti a casa e a guardare fuori o se porto qualcuno con me è per farlo guarire insieme a me. Perché nel bosco non c’è niente da fare, fa tutto lui o loro che siano, ti guariscono, ti trasformano e meno fai, più possono lavorarti.
Nel bosco canto e ballo, tanto non c’è nessuno e comunque prima mi guardo intorno.
I primi mesi ho fatto anche la spazzina del bosco, ho raccolto tutta la plastica, il ferro, la carta che c’era. Ho tolto tante bottiglie di plastica bianca infilate su paletti e dopo il mio compagno mi ha detto: “Oddio Chandra, hai tolto i confini degli appezzamenti dei contadini…” Finora però non mi ha detto niente nessuno. Non so se sull’autocertificazione potrei scrivere ‘spazzina dei boschi’.
E poi c’è il capitolo asini. Prima di tutti, Pippo che ho ribattezzato Pippo Magique, perché è veramente veramente magico. È un grande asino bianco. Assomiglia molto a un unicorno. Certe volte mi corre incontro a tutta velocità ragliando al cielo. Altre volte fa quasi finta di non vedermi. Una volta si è messo a correre in diagonale e io ho corso seguendo un’altra diagonale, poi abbiamo virato e ci siamo abbracciati. Un’amica mi ha detto: “Sono testimone di aver visto un asino che ti abbracciava e non solo tu che abbracciavi un asino.” Non lo vedo da un po’, il suo padrone lo tiene segregato ora, in un prato inaccessibile e recintato. Sembra proprio che io debba imparare a perdere.
Non come opposto di vincere ma di tenere.
Per ora la città non mi manca affatto, se mi chiamano persone un po’ serie o ciniche, la magia del bosco trema, vacilla, ma poi torna in piedi, salda, appena ritorno a essere bosco insieme al bosco. Forse anche scriverne è un rischio, forse.
Cerco di ricordarmi il più spesso possibile di dedicare tutte le meraviglie a chiunque mi venga al cuore. Come una carezza, che non si sa da dove venga. Faccio un elenco improvvisato e invio. Alle 18,30 ogni sera medito, qualcuno da lontano medita con me. Sento il respiro, lo seguo e lo assaporo, e invio il bene a tutti gli esseri che sono in emergenza. Gli esseri, non solo le persone. Tanti fili sottili coprono il mondo e io ne faccio parte.
10 NOVEMBRE 2020
Oggi vi consigliamo di leggere queste riflessione di Nicoletta Vallorani, una voce fuori dal coro delle inutilità che girano in questi giorni sui media: citando il caos come definito da Donna Haraway e le metafore biopolitiche di Susan Sontag e tanto altro ci racconta i danni della pandemia
Le parole della pandemia, in particolare, lo scriveva già Susan Sontag, hanno una valenza doppia, una genealogia metaforica duplice che combina il desiderio di astrarsi dal dolore con la consapevolezza che il corpo malato è reale, esistente, violabile, violato.
Le misure “simboliche” che giorni fa invocava uno dei governatori delle regioni italiane sono – se definite come tali – offensive e pericolose. Esse cancellano la consapevolezza dei corpi veri per rimpiazzarla con un lessico di convenienza politica.
In realtà una delle tante cose che stanno già finendo nel conto delle vittime è la capacità di “vedere” quel che sta accadendo, e di raccontarlo in modo che il racconto serva a quello cui servono le storie: capire, trovare strade, rendere visibile, dipanare in superficie il groviglio degli errori.
Nell’idiozia politica che pare il segno dei tempi, questa capacità di dar forma al disastro è uno degli illustri scomparsi, mentre appaiono in ogni dove politologi, epidemiologi, esperti di adolescenti e di scuola, economisti autodidatti. Intanto, in questa festa di sparizioni, le scomparse sono anche altre. È scomparso, per esempio, il corpo dei vivi.
Non ci sono i sorrisi, le smorfie tristi e di allegria, le bocche chiuse o spalancate sui denti. Per tanti di noi che continuiamo a insegnare, sono scomparsi gli studenti, trasformati in pallini, al meglio decorati da avatar che designano identità immaginare. Sono scomparsi gli abbracci.
Nei rapporti tra persone, è sparita la pelle.
È scomparso, inoltre, il corpo dei morti.
Le persone che se ne sono andate sono oggetti senza respiro che non si riescono a vedere, congiunti svaniti dei quali si è immaginata la cerimonia funebre invece di viverla.
La memoria si impolvera presto, mentre il dolore resta intenso, senza potersi consolare di un saluto adeguato.
Avremmo anche la responsabilità di evitare di far sparire le cose che contano, per esempio le relazioni, la dimensione etica, l’idea di comunità Paghiamo – qui a Milano, nella mia percezione, ma forse anche altrove – un’altra scomparsa importante, quella più penosa e originaria: la scomparsa della capacità di capire quel che ci si muove intorno.
Per questo genere di comprensione, ci vuole un tempo lento, una riflessione resa essenziale da consapevolezze inedite, uno sguardo attento al caos. Che è nostro compagno e, come scrive Haraway, è la condizione permanente di un pianeta rischia di scomparire anche lui.
9 Novembre 2020
Oggi proponiamo un’articolo un po’ impegnativo ma degno di una lettura attenta: Arjun Appadurai. Diritto all’immaginazione di Daniela Panosetti. Pubblicato su Doppiozero
https://www.doppiozero.com/materiali/arjun-appadurai-diritto-allimmaginazione
8 novembre 2020
Pensavamo che questa pagina del nostro sito fosse diventata obsoleta, invece eccoci qua di nuovo a riempirla.
A differenza di marzo quando l’abbiamo aperta, il nostro tempo ora, non lo definiamo più liberato ma lo rinominiamo “tempo dinamico”
Sentiamo oggi la necessità di entrare in un tempo di ricostruzione, e di lavoro produttivo finalizzato a costruire depositi delle macerie ancora riutilizzabili che non possiamo abbandonare nel cassetto dei ricordi.
Chi conosce la storia di APRITI CIELO, sa quanto lavoro e dedizione abbiamo messo in questa avventura e conosce la nostra determinazione accresciuta dal consenso che nel tempo ci avete dato tutte voi socie e soci e tute le persone che ci hanno avvicinate. Riprendiamo con un bel racconto di Elena Petrassi che ci invita all’osservazione, al guardare le persone che ci circondano, a ricordare..
https://www.facebook.com/notes/elena-petrassi/cronache-dallanno-senza-carnevale244-dove-la-letteratura-%C3%A8-stanca-di-vivere-nei-/10217875625218651/
12 Maggio 2020 Oggi pubblichiamo uno scritto di ELENA PETRASSi. Scrittrice , poetessa e socia di Apriti Cielo. Vive e lavora a Milano dove si occupa di comunicazione aziendale. Lo scritto qui sotto fa parte di una raccolta intitolata ” Cronache dell’anno senza Carnevale che scrive sul suo blog http://elenapetrassi.blogspot.com/
Rispondere, non rispondere, andare e tornare.
La città mi chiama e cerco di ignorarla, ma non è facile.
Passano ancora molte ambulanze, i passanti, qui nel quartiere, sono radi.
Ho lasciato le Montagne della Nebbia e tutti i miei ospiti nella casa affollata. Hanno tutti molto da fare e non sentiranno la mia mancanza.
Così sono scivolata oltre il giardino e mi sono ritrovata nella città assediata dai pioppi in fiore e dal profumo dei gelsomini che dà alla testa.
Pochi giorni fa era ancora inverno, sfrangiato appena da una timida primavera pallida e incerta.
Oggi è estate, piena estate. Così seguo il profumo dei gelsomini, mi fermo a fotografare le chiome degli alberi, la via dei gelsomini è da sempre poco frequentata. Così posso arrivare sino alla villa i cui muri e cancelli sono interamente nascosti dalle piante fiorite. È un rito passare a salutarli anche quando non sono fioriti. I gelsomini dell’anno passato dormono nei sogni delle foglie, quelli dell’anno che verrà dormono nei miei di sogni. Fioriscono sempre entro la prima decade di maggio e anche quest’anno non hanno tradito le mie aspettative.
Il profumo è inebriante, tolgo la mascherina e affondo il viso tra i fiori. I ricordi arrivano alla rinfusa, le speranze dimenticate anche. Non è facile trovare parole per dare un senso a queste giornate e al futuro. Non è facile ma io lo trovo ogni giorno nella poesia e nell’amore che sono strettamente legati e insieme danno forma alla speranza.
Non so quanto tempo sono rimasta a respirare quel profumo delizioso che ha evocato decine di immagini legate a luoghi dove sono stata. Potrei scrivere un alfabeto dei luoghi che ho amato. Per chi avrebbe senso se non solo per me stessa? Ma sono domande oziose perché quando si scrive si spera sempre di trovare una, una persona almeno, che leggerà le nostre parole e sentirà lo stesso brivido che noi abbiamo avuto scrivendole.
“Poiché non sappiamo quando moriremo, si è portati a credere che la vita sia un pozzo inesauribile; però tutto accade solo un certo numero di volte, un numero minimo di volte.
Quante volte vi ricorderete di un certo pomeriggio della vostra infanzia? Un pomeriggio che è così profondamente parte di voi che, senza, neanche riuscireste a concepire la vostra vita; forse altre quattro o cinque volte, forse nemmeno. Quante altre volte guarderete levarsi la luna? Forse venti. Eppure, tutto sembra senza limite”.
Io sento così forte in me questo pozzo inesauribile, la forza senza limite del gelsomino fiorito che profuma l’aria della sera, il profumo delle rose che fioriscono senza saperlo.
I fiori non si danno pena per ogni giorno che arriva, fioriscono e profumano. Con i loro colori rallegrano la nostra vista. Noi siamo sensibili a ogni minima variazione di intensità sia di profumo che di colore, siamo sensibili alle foglie e alla brezza anche se la nostra prima fioritura appartiene al passato. Molte si sono susseguite nel corso degli anni e insiste in noi la vita ad amare il profumo dei gelsomini e delle rose. Insiste nell’invitarci all’amore che continua a essere una risposta a molte domande.
Sfioro la mia mano bambina, il tempo spalancato del futuro e sono qui e lì nello stesso momento. Maggio 2020
5 Maggio 2020 Secondo giorno della parziale ripresa. Da ieri si può di nuovo uscire con tutte le dovute precauzioni. Ci giunge un contributo di PAOLO ALVINO allievo del corso Conoscere la Voce tenuto da Francesca Contini . La sua poesia scritta e letta da lui è una rivisitazione della famosa “5 Maggio” di Alessandro Manzoni dedicata alla morte Napoleone Buonaparte.
Paolo Alvino legge 4 Maggio
Clicca sul link per audio
https://drive.google.com/open?
id=1nXG1vfTpgUEtmDhPOCf3D9xbMZ58xs0O
20 Aprile 2020 Oggi invitiamo sulla nostra pagina una cara amica di Apriti Cielo. SILVIA C. E’ una giovane donna che fa l’insegnante. E’ coraggiosa e molto attenta, sta cercando di trovare una pace e una ragione di due dolorose perdite importanti (non per colpa del Coronavirus)- Ha un sorriso speciale e una sensibilità profonda , ama i suoi allievi e per loro inventa modi un po’ speciali di insegnamento per catturare la loro attenzione. Con noi sempre un sorriso e una parola giusta e non convenzionale. Questa poesia che ha scritto ci ha commosse, ma noi che la conosciamo sappiamo che vuole accettare le perdite senza cancellarle, ma tenendole nel cuore con amore, con coraggio, a volte con timore ma, senza farsi abbattere dai momento di sconforto. Ciao Silvy ti vogliamo bene, e grazie della tua dolcezza.
A chi è rimasto
soffocato, schiacciato, separato
da questo tempo sospeso.
Escluso, dimenticato, tagliato fuori
impreparato, incapace e inerme
in questo tempo
che ha il ritmo antico
della Natura, della cura, del pane
delle ferite che sanguinano
e lentamente si rimarginano,
della presenza feroce della Morte.
A chi è rimasto
in una casa vuota
che la sera fa paura
e si popola di fantasmi
a chi non dorme
a chi non sa se
a chi non ha voglia nemmeno di...
A chi è rimasto senza
casa, lavoro, sogni
senza abbracci e carezze
palpitare di cuore e di muscoli
senza un corpo amato
amante
accanto
A chi è rimasto lontano
da chi, da dove, da come
a chi scopre solo adesso
e ora non può più
e non è tempo di
e chissà se mai
a chi è stanco
a chi non ha fatto in tempo a
alle mie sorelle
alle mie donne
presenti qui o altrove
A chi è rimasto solo
spaurito
in questo tempo
fuori tempo
che oggi
al mio cuore
fa un po' più paura.
18 APRILE 2020 Proponiamo una bella riflessione di ANNA FANTINI, socia che frequenta il corso Conoscere la Voce condotto da Francesca Contini nella nostra Associazione. Anna si sofferma a guardare un quadro di Renato Guttuso e ne trae una riflessione sulla speranza e ne una descrizione simbolica dei personaggi raffigurati.
In questo momento di grande incertezza e precarietà vorrei soffermarmi con voi su questo dipinto di Guttuso così carico di significati simbolici.
Si tratta appunto di una grande tela dal titolo
“Spes contra Spem" locuzionelatina che potremmo tradurre con “sperare contro ogni speranza”.
Guttuso scelse di ispirarsi alle parole di una lettera di San Paolo ai Romani.
Il dipinto riassume la vita dell’artista con la presenza della morte che incombe (fu stroncato da un tumore ai polmoni) e la speranza verso il futuro, rappresentato dalla giovane donna che spalanca la finestra.
La scena si articola appunto in tre parti: a sinistra i suoi libri, i suoi amici e maestri, lui e la moglie Mimise, sul cavalletto un’opera di Picasso.
Nella libreria in alto a sinistra si evidenziano un teschio ed un uovo, simboli della morte e della nascita.
A destra persone che parlano, mentre al centro, davanti alla finestra, domina la scena una donna nuda ripresa di spalle. Oltre il mare, si intravede la città natale del pittore, Bagheria.
Nel nudo della donna l’artista vuole rappresentare l’essenza della nostra esistenza: appunto, bella ma nuda.
La situazione creata è appunto di attesa, di sospensione, di riflessione.
L’unico movimento è rappresentato dalla bambina vestita di giallo che attraversa di corsa la scena (forse simboleggiando la velocità con cui la vita scivola via) superando la tartaruga vicino allo sgabello.
In alto oltre a una antenna della televisione, sono raffigurate le teste mostruose di pietra su cui l’artista, da bambino si arrampicava, del giardino di Villa Palagonia, la “villa dei mostri”, edificio settecentesco di Bagheria.
A prima vista risaltano i colori forti, reali, vivaci.
In questo dipinto, Guttuso ci lascia il suo testamento spirituale: mette in scena la sintesi della vita con cerimonia di addio. Sia che si corra o che si proceda lentamente nella propria esistenza, alla fine ogni uomo, in un modo o nell’altro, spera contro ogni speranza. È nella sua natura ed è giusto che sia così.
Quella speranza che va oltre ogni delusione, amarezza, dolore e sofferenza: spes contra spem!
16 MARZO 2020 Oggi la nostra pagina dedicata, accoglie la voce poetica di SERAFINA TARANTINI, MARINA MARIANI che fanno parte della Stanza della Poesia di Apriti Cielo e quella di DONATELLA MASSARA, una delle fondatrici della WebRadio “Donne di Parola” . Tutte e tre hanno espresso in versi il loro pensiero al tempo liberato
SERAFINA TARANTINI - Silenzio a Milano
Ascolto il silenzio
e odo soltanto
volteggiare nell'aria
le parole
il lieve fruscio
delle gomme dell'auto
sull'asfalto
e lo stormire delle foglie
in questo sgomento
silenzio
lacerato
dal suono acuto
delle sirene
MARiNA MARIANI Senza titolo
Quando agli occhi s'apre
il deserto
conti gocce d'acqua:
grani di preghiere
in transito
DONATELLA MASSARA Ritorno
Sono stata così orgogliosa di Milano
Città che da adesso mi fa paura
Ognuna di noi amiche indossi
La sua corona e Voi uomini
Date il cavallo a Riccardo III
Per essere re.
Da suddita del regno
Divento regina
Mentre aspettiamo
La fulgida estate
Vorrei la terra di mio nonno
Mi accontento
Dell’orto
Al centro
Del paese di 6000 anime.
Nella casa della mia accigliata
Nonna, figlia del sindaco,
Ci vado a vivere
Con una stufetta
Per scaldare quella stanza da bagno
Freddissima quando ero bambina
Metto insieme un bagaglio
Per andarmene da Milano
Vi regalo la mia libreria
Ho con lei già goduto, scritto, imparato
Porterò via solo il lettore
Per i miei libri
Ripartirò dai 30 volumi
Di mio nonno
Che conservava con orgoglio
Nell’armadio con le ante.
Non oso dirlo,
A voce alta
Che vorrei andarmene
Lo dico a voi,
Non vorrei lo sapesse
Chi non voglio deludere
Non vorrei si sentisse non amata.
Per un inizio a
Ritornare
Con la mia corona da regina
Mi do un nuovo nome e cognome
Ester Soave
Una piccola ebrea
Fuggita di casa con le monete d’oro
del banco del padre.
14 Marzo 2020 Eccoci di nuovo dopo l’interruzione Pasquale. Nulla è cambiato del nostrro stare in casa. Ognuna/o impiega il tempo libero per coltivare le attività confacenti. GIULIA GRIGOLETTO, poeta e insegnante di Yoga che abbiamo già incontrata in questa pagina ci manda due poesie sulla reclusione senza compiacimento nè autocommiserazione, come le ha definite Patrizia Puleio.
EPPURE
Eppure, l’aria è leggera
i prati sbirciati tra i cancelli chiusi dei parchi
attraggono per l’intensa fioritura
profumi sottili
gli uccelli da un albero all’altro
in un corale mai ascoltato lì
nel traffico messo a riposo
scardinata l’ora di punta
solo ogni tanto qualche macchina
come negli anni sessanta
quando un motore si udiva da lontano
e mia madre mi prendeva la mano.
STARE
Scorreva tra gli argini un po’ assonnato
e di tanto in tanto una strana forma trasportava
“poco più di un’influenza” qualcuno diceva.
Poi, come all’improvviso, un moto vorticoso
eretto a mostro divora il quotidiano.
Ricacciati nelle proprie stanze
dalla finestra il mondo sbirciamo,
la sirena di un’ambulanza sovrasta
la chitarra del piano di sopra,
un bambino scalcia
il pallone sul vetro del dirimpettaio,
qualcuno di tutta fretta rientra
qualcun’altro va a fare la spesa
Borse che fanno tremare i polsi.
Mentre la Primavera serafica fiorisce
e promette frutti in altra stagione
spalanchiamo le braccia alla rete
così rassicurante è il virtuale!
Ma l’imbrunire non distrae
dall’ululare del mare.
4 Aprile 2020 Che sia un BUONGIORNO per tutte e tutti. Oggi apriamo con uno scritto di ELENA PETRASSI Scrittrice , poetessa e socia di Apriti Cielo. Vive e lavora a Milano dove si occupa di comunicazione aziendale. Lo scritto qui sotto fa parte di una raccolta intitolata ” Cronache dell’anno senza Carnevale che scrive sul suo blog http://elenapetrassi.blogspot.com/
Chiamo a raccolta gli assenti, i perduti, i dimenticati o forse è meglio dire che sono loro a chiamarmi
L’amicizia è sempre stata il sale della vita per me, lo è ancora e ancora di più oggi che posso solo parlare e talvolta vedere i volti dei miei amici e delle mie amiche.
Ne ho già citati alcuni in queste Cronache dall’anno senza Carnevale che accompagnano i miei giorni, vorrei dire a ognuno di loro, che sono vicina anche se non mi sentono e non mi vedono.Ancora a Milano, e grazie alla poesia, è nata un’amicizia di ormai lunghissima data con una coppia veronese che è nel cerchio più vicino al mio cuore.
Ho conosciuto Lorenzo e Maddalena una sera di giugno di circa venti anni fa. Eravamo alle Colonne di San Lorenzo per una lettura poetica, c’erano anche Grazia e Danilo. Era una serata bellissima, piena di rondini e profumi estivi
. Abbiamo iniziato a chiacchierare e non abbiamo mai smesso da allora. La maggior parte dei nostri libri non era ancora stata né scritta, né tanto meno pubblicata e mi piace pensare che i sentieri invisibili che hanno portato alla scrittura delle nostre poesie, prose, saggi, articoli, romanzi e racconti, si siano segretamente e misteriosamente intrecciati nel tempo.
Di certo si sono intrecciati con la vita della piccola casa editrice che ha pubblicato i nostri ultimi libri di poesia nella collana “Il passo di Efesto” ideata da Danilo Bramati, un saggio di Lorenzo, i racconti di Maddalena e i miei romanzi.
A Verona abbiamo condiviso pranzi meravigliosi sulle tovaglie di tela di Fiandra allestite con le più belle porcellane e cristalli della loro dimora. Sono stata loro ospite nella stanza che è lo studio di Lorenzo dove, anziché dormire, ho letto fino a notte fonda e scritto nel buio illuminato solo dalla piccola luce di una lampada antica.Ho visto i cieli di Verona sovrapporsi ai cieli di Corot, con le stesse nuvole meravigliose. Ho visto le piccole api che regnano su una tappezzeria, risvegliarsi nel giardino di Torri del Benaco e ronzare intorno ai cespugli di lavanda, in uno dei luoghi dove ho trascorso alcune delle più belle vacanze della mia vita.Ho bighellonato con Lorenzo per le campagne intorno a Dolo Veneto e poi a Treviso mentre Maddalena frequentava una delle scuole di formazione obbligatorie per gli insegnanti negli anni passati.
Il Lago di Garda, Piazza delle Erbe a Verona, gli antichi palazzi seicenteschi con scaloni di marmo larghi il doppio delle scale attuali, i cieli del Veneto, il calore delle passioni condivise, l’amore per le parole e per la vita nella sua nuda essenza, l’amore per Rainer Maria Rilke e Etty Hillesum – per inciso Lorenzo è stato il primo a scoprire che tante frasi del diario di Etty Hillesum sono sue traduzioni dal Libro d’ore di Rilke ancorché non citato – per la letteratura francese e per quelle anglosassone e qui fermo nella stesura di una delle mie tante liste perché le liste sono per me le stanze di ciò che è reale.
Oggi voglio dedicare a loro questa Cronaca, perché mentre con Maddalena da tempo condividiamo il dolore di avere perso entrambi i genitori, ultime le nostre madri nell’ultimo anno, ieri Lorenzo ha perso, come migliaia di altri italiani in questo tempo livido e doloroso, suo padre. Suo padre, non una statistica, un anziano, un vecchietto. Era suo padre e questo dolore del distacco, lo straniamento, sono unici per lui e per ciascuno di noi, per tutte le persone che stanno perdendo chi amano, perché siamo nomi e relazioni, non numeri e quello che resterà di noi è nei gesti e nei ricordi di chi è rimasto.
Anche Edoardo ha perso di recente suo padre, ma la situazione sociale “normale” di qualche mese fa, non faceva però notizia quando morivano gli anziani e il suo dolore è rimasto ammantato della discrezione che lo contraddistingue e chissà se mai diventerà poesia. Ma siamo tutti uguali di fronte al dolore che non ha risposte, di fronte al momento in cui l’ombra dei genitori si fa da parte e smettiamo di essere figli.
I figli sono come le foglie che cadono ai piedi dell’albero e ritornano in vita una primavera dopo l’altra. L’albero è la vita stessa che prosegue e insiste, generazione dopo generazione.
La poesia è quel segno sulla corteccia che si vede solo quando ci fermiamo e in silenzio, con attenzione, sfioriamo la superficie del tronco e sussurriamo ai rami quanto è fredda questa primavera.
Anche Danilo ha perso una figura di riferimento della sua infanzia e giovinezza, il mitico zio Giuseppe detto Pepp’, amico di Giovanni Testori e dell’amico Pumo, abile pittore in grado di riprodurre I mangiatori di patate di Van Gogh e consegnare così al nipote un’immagine che sarebbe riemersa potente anni e anni dopo, mentre stava componendo il poema Nel cuore della luce. Una vita di Van Gogh in versi e con quell’opera monumentale e purtroppo poco conosciuta, ha iniziato a compiere il suo destino di poeta.
Un destino, una vocazione alla scrittura anche per Lorenzo Gobbi e Maddalena Cavalleri che hanno pubblicato i loro ultimi romanzi Stella dei volti e Un kepì comprato al volo con Castelvecchi editore.
La poesia di Lorenzo, che vi lascio per questa nuova notte che scende, è uscita nella raccolta La gioia è un turbine di quiete. Poesie 2000 – 2009, Atì editore 2014.
Layla, penso spesso
a questo bene traboccante
dalla nostra vita in forma
di parole: ci dev’essere
un colloquio nella terra, così
vasto e disarmante
che non bastano gli alberi e le bacche:
serve un’anima di passo,
una voce in più nell’aria
tra le rondini, per grazia.
29 marzo 2020 Buona Domenica!!!Una seconda lettura da Corpo Celeste di ANNA MARIA ORTESE interpretata da FRANCESCA CONTINI. Questo è il link del suo blog dove si possono vedere video e immagini dei suoi spettacoli: http://continifrancesca.blogspot.com/p/bio_19.html
da CORPO CELESTI di ANNA MARIA ORTESE https://drive.google.com/open?id=1z-dGRFKL9SlDI-XwCzBtg83bdXvoOLhC
26 MARZO 2020 PATRIZIA PULEIO è una socia molto attiva in Apriti Cielo, brava acquarellista, scrive poesie e tiene laboratori di acquerello, ci manda questo scritto in cui descrive la realta di un giorno qualunque e delle sue considerazioni su una situazione che l’ha fatta riflettere…e di tempo per riflettere ne abbiamo molto in questo periodo sospeso.
Ieri ho deciso di concedermi una parvenza di normalità, e sono andata dal macellaio, il piccolo negozio di quartiere da cui andavo “prima”. Era già quasi un mese che non ci tornavo, in favore della spesa al super, fatta il più velocemente possibile e con tutte le precauzioni del caso. Sul marciapiedi davanti alla porta c’erano due altre persone in fila, entrambe con la mascherina a coprire la bocca, a debita distanza l’una dall’altra. Dopo di me è arrivata una signora anziana, con una pelliccetta spelacchiata e senza mascherina che si è fermata proprio davanti alla porta. Quando è uscita la cliente da dentro il negozio, l’ha dovuta scansare per passare. Il macellaio ha portato fuori la panca di legno che tiene all’interno, dicendo “sedetevi ad aspettare”. La vecchietta si è seduta, ho subito calcolato inconsciamente se la panca fosse più lunga di un metro oppure no, e ho scartato l’idea di sedermi. Troppo vicina alla vecchia. Che oltretutto si era seduta proprio al centro. Mi sono resa conto che la stavo guardando in modo non proprio amorevole, poi ho considerato la sua età, le gambette secche nelle calze di nailon un po’ slabbrate, i capelli spettinati in modo quasi assurdo, con la ricrescita bianca su un color castagna quasi arancione. Ho pensato ai parrucchieri tutti chiusi, e che alla fine di questa quarantena avremmo avuto tutte, sì, tutte i capelli così.
Poi la cliente prima di me è uscita, era il mio turno. Ho fatto scorta di bistecche, carne trita, un arrosto e due pezzi di biancostato per bollito da congelare, così da essere a posto per un bel po’ di tempo, e sono tornata verso casa. Non c’era nessuno in giro che passeggiasse o parlasse, soltanto, lungo tutto il marciapiede, per almeno trecento metri, una fila di persone che aspettavano di entrare al piccolo discount all’angolo. Chi con la mascherina e i guanti di plastica, chi senza, qualcuno con una sciarpa a difendere la bocca. Tutti in silenzio, ad almeno due metri l’ uno dall’altro, sembravano pellegrini in penitenza. Poche auto passavano nella strada, un autobus semivuoto, che alla fermata rallentò appena e poi tirò dritto. Tutti gli altri negozi, i due bar, il casalinghi, la boutique, il gioielliere, erano tutti chiusi. Senza traffico c’era un silenzio insolito. Mi prese una tristezza infinita, non riconoscevo la mia strada, la mia città, mi sembrava di essere in un incubo. Poi però ripensai alle parole di un amico medico, che ribatteva a chi diceva di come fosse triste ora la città. ” A me non mette tristezza la città silenziosa, i negozi chiusi, la pochissima gente in giro. Anzi, sono contento di vederla così vuota. Significa che la gente ha capito. Le persone non sono in giro, sono chiuse in casa, a combattere esattamente come noi medici, perché si riesca a tornare ad essere come prima, insieme.”
23 marzo 2020 Iniziamo un’altra settimana di emergenza che ci tiene lontane/i con il contributo di MARINA MARIANI che propone uno stralcio da Uova Fatali di Michail Bulgakov
In questi tempi sospesi dove assistiamo attoniti e perplessi a comunicazioni contrastanti inerenti all’elaborazioni dei dati dell’epidemia Covid 19 e ad enunciazioni politiche contraddittorie non solo nel nostro paese mi sento di consigliarvi la lettura di Uova Fatali di Michail Bulgakov. Breve trama Mosca, 1928.Il professor Persikov, direttore dell’Istituto Zoologico di Mosca, scopre per caso un raggio rosso che investe alcune amebe. A differenza di quelle non colpite, però, queste risultano più aggressive, più grosse e più prolifiche. Ne parla subito col collega Ivanov e i due decidono di provare a puntare il raggio su alcune uova di rana: l’esperimento funziona e gli animali cominciano a svilupparsi in modi dapprima stupefacenti, poi terribili. Nel frattempo in tutta l’Unione Sovietica scoppia un’epidemia aviaria che decima la popolazione delle galline: il funzionario statale Rokk (che in russo significa “sorte/caso”) ha l’idea di utilizzare il raggio rosso Persikov per ricostituire e magari migliorare la popolazione delle galline, quindi dall’estero si fa arrivare delle uova, ne deriva un racconto che unisce la fantascienza, all’horror alla satira politica,e che mette in luce i problemi di un governo che, tra le altre cose, ripone troppa fiducia nella scienza, senza accettarne i limiti.
“La sera del 16 aprile 1928 Vladìmir Ipàt’evic Pérsikov, professore di zoologia della IV Università statale e direttore dell’Istituto di Zoologia di Mosca, entrò nel suo studio, nell’Istituto di via Herzen. Accese la sfera opaca sospesa in alto e si guardò intorno.
Come l’inizio della spaventosa catastrofe va fatto risalire appunto a quella disgraziata sera, così proprio il professor Pérsikov deve esserne considerato la causa primaria.
Il professore aveva 58 anni, una testa notevole, calva, con ciuffi di capelli giallastri dritti sulle tempie, piccoli occhi sfavillanti, un viso accuratamente sbarbato; il labbro inferiore sporgente gli conferiva un’espressione sempre un po’ capricciosa. Sul naso rosso portava degli occhiali all’antica, con montatura in argento.
Di statura era alto, ma alquanto curvo. Parlava con voce sottile, stridula e gracidante e tra le altre stranezze aveva anche quella di socchiudere gli occhi e piegare a uncino il dito indice della mano destra quando diceva qualcosa con autorità e convinzione. Ma siccome parlava sempre con convinzione, dall’alto di un’erudizione che nei settori di sua competenza era assolutamente fenomenale, questo uncino faceva spesso la sua apparizione davanti agli occhi degli interlocutori del professor Pérsikov. Egli, del resto, parlava quasi soltanto delle sue materie, e cioè zoologia, embriologia, anatomia, botanica e geografia.
Il professor Pérsikov non leggeva giornali e non andava a teatro; la moglie lo aveva abbandonato nel 1913 per un tenore dell’opera di Zimin, lasciandogli un biglietto che diceva: “Le tue rane suscitano in me un insopportabile fremito di ripugnanza. Sarò infelice tutta la vita per causa loro». Il professore non si era risposato e non aveva figli. Era molto irascibile, ma si calmava presto; amava bere tè alla mortella e viveva nella via Precìstenka, in un appartamento di cinque stanze, una delle quali occupata dalla governante Màr’ja Stepànovna, una vecchietta rinsecchita che accudiva il professore come una balia.
Nel 1919 requisirono al professore tre delle cinque stanze ed egli dichiarò a Màr’ja Stepànovna: “Se non la smetteranno con queste porcherie, Màr’ja Stepànovna, me ne andròall’estero». E senza alcun dubbio, se il professore avesse portato a termine questo progetto, gli sarebbe stato molto facile ottenere una cattedra di zoologia in una qualsiasi università del mondo, poiché era uno studioso di livello davvero superiore e nelle materie che in un modo o nell’altro avessero attinenza con gli anfibi o con i rettili nessuno gli era pari, a eccezione dei professor William Weckle di Cambridge e Giacomo Bartolomeo Beccari di Roma.
Oltre al russo il professore leggeva quattro lingue e parlava perfettamente il francese e il tedesco.
Pérsikov non mise in atto il suo progetto di trasferirsi all’estero e l’anno 1920 risultò anche peggiore del precedente. …… “
22 marzo 2020 BUONA DOMENICA a tutte e tutti! Dopo il sole dei giorni scorsi, arriva di nuovo il freddo. A riscaldarci, almeno il cuore, saranno sempre le letture e le poesie che giungono puntuali: Oggi, dalla sua viva voce, una poesia di PAOLO ALVINO dal titolo Miele e una poesia scritta da ANNALISA MAMBRETTI.
https://drive.google.com/open?id=1bwIDqt7Me9khcbFt9ijONAJyMlNS_2Lj
CANTA L’ANIMA di ANNALISA MAMBRETTI
Non sempre canta l’anima
talvolta sprofonda nell’angoscia
ma quando canta lo fa in Si maggiore.
Canta la mia anima nei boschi
e sente il vento e gli animali
nascosti tra il fogliame
e il cielo che si apre e si confonde
con l’argento dell’acqua
dove il sole riverbera la luce.
Canta la mia anima
quando è davanti al mare
guardando il cielo
al tramonto rosa immenso
dell’orizzonte
e la bellezza è tale
che si emoziona
per quella piccola onda
che s’infrange.
La mia anima canta e gioca
con le parole
così tanto per giocare
le piace sferzare la fantasia
nei ruoli infiniti della vita
dell’amore del dolore.
Non sempre canta l’anima
talvolta sprofonda nell’angoscia
ma quando canta lo fa con la poesia.
21 marzo 2020. Primo giorno di primavera, la natura è puntuale all’appuntamento e come ogni anno ci regala la sua fioritura. Oggi un bel contributo dalla nostra esperta voce narrante FRANCESCA CONTINI, un monito..una preghiera..un regalo di ascolto.
https://drive.google.com/open?id=1d_xSF0uxbywHMXFl_
Anna Maria Ortese – Attraversando un paese sconosciuto da Corpo Celeste
19 marzo 2020 un’altro giorno è passato come i grani di un rosario, e noi siamo di nuovo ad aggiornsare questa pagina per voi che ci seguite. Anche oggi ci arriva un contributo per i bambini. FRANCESCA CONTINI legge un breve racconto di VIVIAN LAMARQUE dedicato ai più piccoli è accompagnata dalla chitarra e versetti di João Gilberto intitolata Undiù . Buon ascolto e se fate brutti sogni scoprirete che c’è qualcuno che ….
Francesca Contini legge: Il bambino con il violino di Vivian Lamarque : Accompagnamento musicale di Massimiliano Toffalori
https://drive.google.com/open?
id=1cTpFhb1F0IVGkiM39K37Ip4Pa4XGgFXQ
18 marzo 2020 Oggi abbiamo pensato ai bambini a quelli più piccoli…anzi no! a tutte e tutti quelli che si sentono come bambini: BEATRICE DELLA PERGOLA socia del Corso “Conoscere la Voce” leggerà una bellissima poesia. Da ammirare pensate un po’ arriva da Rodano sempre puntuale per frequentare Apriti Cielo! Facciamo tanti auguri a Beatrice che si è lussata una caviglia, reclusa due volte…
Beatrice Della Pergola legge "Coronavirus" di ROBERTO PIUMINI
https://drive.google.com/open?id=1a3R1REZnzQ-0ttn6TJcxvbnJKZcAN9K
ATTENZIONE se cliccando sul link esce la scritta "Stiamo elaborando.... premete SCARICA e appare la registrazione
Buongiorno a tutte e tutti che leggete questa pagina oggi è martedì 17 marzo di questo inconsueto 2020. Noi continuiamo a ricevere contributi e anche oggi aggiorniamo con una lettura della socia MARIANGELA CANDIANI che partecipa al Corso “Conoscere la Voce” e candidata ad entrare nel Direttivo dell’Associazione
La voce del silenzio” tratto da “Le rose di Atacama” di Louis Sepulveda letto da Mariangela Candiani: https://drive.google.com/open?id=1MZxzY_3MTJllROrqdxP7AXICpcocfuxR
poi abbiamo un contributo poetico di GIULIA GRIGOLETTO che fa parte del gruppo “La stanza della poesia” Giulia è una socia partecipativa, E’ di Milano dove risiede ed opera in campo psicosociale. Collabora con varie riviste scientifiche ed è insegnnate Yoga per adulti e bambini . Ci invia questo suo testo:
Tempo
Avere tempo, guadagnare tempo
nel tempo che manca,
scorre il tempo sull’web
ci avvicina e ci conforta
nel tempo fisico attaccato
isolato contagiato, tempo malato.
Tempo della distanza che unisce
nell’assenza che cura.
Tempo dell’avventura negata, rimandata.
Tempo del tempo senza tempo.
Tempo sospeso dispiega le ali
respira tra gli alberi in fiore
un’altrove nello scorrere delle ore
forse, un tempo di nuova stagione.
Giulia
16 MARZO 2020 Arriva questa mattina il contributo di SERAFINA TARANTINI socia molto attiva che ci segue sempre e partecipa attivamente a tutti i nostri eventi, Serafina fa parte del Gruppo “La stanza della Poesia” che si riunisce ogni quindici giorni. Ci invia due brevi testi poetici
Deserti
deserti
non di sabbie dorate
ma di grigi asfalti
non oasi
ma grattacieli
dalle cieche finestre
affacciate sul nulla
ma caffé
dai tavoli apparecchiati
con sedie vuote intorno
Miraggi
non di acqua
di persone
ma scatta un clic
un segnale
"Come stai? "
Sempre oggi perviene il contributo di PAOLO ALVINO allievo del corso”Conoscere la voce” tenuto da Francesca Contini. Paolo ha scritto una poesia e la recita, seguendo il link qui sotto potete ascoltarla dal vivo della sua voce
KLIC QUI
https://drive.google.com/open?id=15uvQkY5A04gXXAJuobLeNwffzVBdl0wD
14 marzo 2020; Verso sera ci arriva questo bellissimo acquerello di CAMILLA PICCOLI , Camilla è una allieva del corso di Acquerello tenuto da ELENA VAVARO, è già il terzo anno che frequenta il corso. Questo disegno è il compito fatto in questi giorni di reclusione a casa
12/3/200 oggi FRANCESCA GUFFANTI socia fondatrice di Apriti Cielo e brava artista ci invia un’immagine su cui riflettere
… io sto dipingendo un grande albero-madre.
Approfitto della solitudine forzata per lavorare sul silenzio e la sacralità degli alberi: è l’ascolto di quanto è già dentro di noi, se solamente ci fermassimo e prestassimo attenzione.
Altro contributo canoro molto divertente del gruppo MALAcosa pervenuto da Francesca Contini
Ondanovax – manifesto programmatico della compagnia MALAcosa. Autore
Massimiliano Toffalori. Voci Francesca Contini, Gulia Marra e
Massimiliano Toffalori.
https://drive.google.com/open?id=11PbOkJDqw4SSmu1Kzx-wcF87tDetRhV9 per ascoltare clik sul link
SIMONA VIGNATI è l’insegnante di ginnastica dolce con metodo FELDENKRAIS il suo contributo a questa pagina illustra un’esercizio che potete eseguire e vedere che risultato ha su di voi,ù. Ci interessa sapere se vi è stato utile! potete scrivere a info@apriti-cielo.it anche per ulteriori informazioni
Ciao a tutte/i, sono Simona Insegnante del Metodo Feldenkrais, volevo condividere con voi alcune righe tratte dal libro “Le basi del metodo per la consapevolezza dei processi psicomotori “ di Moshè Feldenkrais ed Astrolabio.
Moshé Feldenkrais (1904- 1984) fisico e cintura nera di Judo ideatore dell’omonimo Metodo Feldenkrais che ideò per risolvere un problema importante al ginocchio.
Capitolo 7 La consapevolezza attraverso il movimento
“Un antico proverbio cinese afferma:” Ascolto e dimentico. Vedo e ricordo. Faccio e comprendo.
…Mi interessava molto di più come facevo un certo movimento piuttosto che notare il movimento in sé. Ecco il succo del mio disturbo al ginocchio. Potevo ripetere un movimento con la gamba un centinaio di volte, camminare per settimane senza alcun inconveniente, e poi improvvisamente fare un unico movimento che mi sembrava identico rovinava tutto. Ovviamente quest’ultimo veniva eseguito in modo diverso dai precedenti, e così mi resi conto che il modo in cui facevo un movimento era molto più importante del movimento stesso.”
Queste poche righe racchiudono una grande verità: il come facciamo le cose, compreso il come ci muoviamo fa una grande differenza e allora In queste lunghe giornate di permanenza in casa mi piacerebbe proporvi un semplice gioco : scegliete una qualsiasi azione lavare i piatti, lavarvi le mani rifare il letto, allungare un braccio per prendere un oggetto qualsiasi azione attiviate provate a portare la vostra attenzione alle sensazioni che il corpo vi trasmette. Siete in grado di riconoscere quante parti del corpo si muovono? e in che sequenza? Quanta forza muscolare state investendo per fare ciò che fate? E state respirando? Ripetete il movimento scelto riducendo lo sforzo muscolare. E’ diverso se ci muoviamo lentamente portando l’attenzione sulle parti che stiamo usando? Che sensazioni fisiche state provando? Cambia la qualità se aggiungiamo al movimento la nostra attenzione gentile e curiosa? Provate a ripetere il movimento fatto con il braccio o la gamba opposta e notate cosa cambia senza giudicare rimanendo in contatto con la vostra capacità di percepire il corpo mentre lo muovete e poi divertitevi ad esplorare modi diversi per fare lo stesso movimento magari più velocemente ma meno ampio oppure lentamente e più ampio
Ed ora provate a chiudere gli occhi e ad ascoltatevi. Le parti del corpo che avete usato le percepite maggiormente? Va bene qualsiasi risposta, anche non sentire nessuna differenza è l’inizio di una nuova consapevolezza di sé.
Oggi 11 marzo 2020 è arrivato il contributo di un socio Bresciamo FIORENZO DIONI , avrebbe dovuto presentare da noi l’ultimo suo libro” Un uomo in scatola” propio questo mese ma l’evento è stato sospeso, Ci invia una recensione dell’ultimo libro di NICOLETTA VALLORANI : Avrai i miei occhi
Il nuovo libro di Nicoletta Vallorani, scrittrice (anche) di fantascienza, è un piccolo capolavoro di scrittura e di trama. In una Milano futura si ambienta una storia legata al ritrovamento di mucchi di cadaveri di donne (persone, cloni o qualcos’altro?) abbandonati come fossero spazzatura. In questo contesto due personaggi, l’investigatore Nigredo e la sua eterea guida, Olivia, cercano di risolvere il mistero, tra le vie di una Milano apocalittica, divisa in settori limitati da muri che separano l’arte della disperazione e quella dell’opulenza, e figure improbabili che richiamano momenti di un passato a cui, soprattutto Olivia, cerca di rimanere agganciata, per non dimenticare la bellezza di ciò che è stato e non cedere alla nuova triste realtà. In un misto di noir e distopia, questo romanzo tocca in modo duro il tema della violenza sulle donne, in cui trovano corpo le sofferenze fisiche e quelle psicologiche, la resa incondizionata e la speranza mai sopita, sostenuta dalla splendida protagonista Olivia, personaggio di cui è molto facile innamorarsi, che nel suo raccontare le mosse dell’investigatore si confronta quotidianamente con la violenza dei rapporti umani di quel mondo che la circonda.Il tutto è raccontato con uno stile elegante e, a mio avviso, tecnicamente splendido. Un bellissimo romanzo che consiglio vivamente, un messaggio per non lasciar cadere un problema, la violenza sulle donne, che è ancora ben lontano dall’essere risolto.
Personalmente posso dire che lo stile di scrittura di Nicoletta Vallorani mi ha entusiasmato. Bravissima!
MARINA MARIANI ci ha inviato un contributo molto pertinente al modo in cui stiamo vivendo in questi giorni da recluse. La Reclusa di cui ci parla però è una creatura molto curiosa: Leggere per scoprire…
Fred Vargas è colui/ anzi dovrei scrivere colei, dato che è lo pseudonimo di Frédérique Audouin-Rouzeau (Parigi, 7 giugno 1957–), allora, precisamente colei che mi ha fatto scoprire la potenza riflessivo/filosofica e sociologica del romanzo giallo. E’ questo il motivo per cui desidero, in questi tempi di distopie quotidiane, sottoporre alla vostra lettura o rilettura Il morso della reclusa. Una indagine del commissario Jean-Baptiste Adamsberg che è costretto a rientrare dalle sue vacanze in Islanda per seguire le indagini su un omicidio. Il caso sarà risolto in tempi brevi e la sua attenzione verrà attirata da una serie di sfortunati incidenti avvenuti nel Sud della Francia. Tre anziani sono stati uccisi da una particolare specie di ragno velenoso, detto comunemente reclusa. Nessun collegamento tra i tre anziani per cui polizia e studiosi sono persuasi che si tratti di fatalità. Ma questo essere soggetti al caso getta gli abitanti della regione in uno stato di nevrosi non semplice da controllare. Adamsberg seguendo i suoi pensieri errabondi, contro il parere della sua squadra e dei superiori, inizia ad indagare.
“Sospettoso, il commissario girò di nuovo intorno alla scrivania del collega ittitologo. Perché Voisenet aveva spento lo schermo prima di andare? Lo riaccese, facendo comparire l’ultima pagina consultata. Non vide né murene né comunicati di polizia. Ma la foto di n ragnetto bruno, apparentemente privo di interesse. Contrariato, risalì a una a una le pagine che il tenente aveva cercato sul web. Ragno, ragno, sempre lo stesso ragno, articoli di zoologia, diffusione in Francia, comportamenti, abitudini alimentari, pericolosità, periodi di riproduzione, e articoli di giornale recenti con titoli allarmistici: Il ritorno del ragno eremita?,Un uomo morso a Carcassonne, Bisogna aver paura della reclusa americana?, Un secondo decesso a Orange.
Adamsberg rimise il compiuter in stand by. Froissy aspettava, elegante, dritta e snella. Tenuto conto della quantità di cibo che ingurgitava- con la massima discrezione pensava lei-.
spinta da un indomabile terrore di restare senza, la perfezione della silhoutte rimaneva un
“Tenente,- le disse Adamsberg,- mi catturi i file consultati da Voisenet in queste ultime tre settimane. Quelli riguardanti un ragno”
“Che ragno?”
“Il ragno eremita. O ragno violino. O reclusa. Lo conosce?”
“Per niente”
“I ragni non sono il campo di ricerca di Voisenet . Ci ha fatto una testa così con cornacchie grigie di ghiri, e pesci, ovvio. MA ragni, mai. Mi piacerebbe sapere dove ha la testa il nostro tenente.”
“Non è molto corretto frugare nel computer di un collega.”/ pag 21/
contributo di FRANCESCA CONTINI socia fondatrice e insegnante del Corso Conoscere la Voce
Poesia di Mariangela Gualtieri. Titolo: Nove marzo duemilaventi pubblicata da www.doppiozero.com Si può ascoltare dalla viva voce di Francesca Contini cliccando questo link: https://drive.google.com/file/d/13SbfmpsDAr6_lNjOzQbJSQxoAyydkX0Q/view
10 marzo 2020 ancora LAURA MODINI ci invia questa riflessione
10 marzo 2020 – notte insonne, letture, pensieri, mezzi sogni. Poi mi è ritornata alla mente una parabola raccontata da Mao alla sua gente nel 1943. Della Cina si può pensare tutto e il contrario di tutto tanto è vasta la sua cultura,, la sua origine e anche chissà il suo futuro. In questi mesi (ovvio marea di critiche!) lo ha dimostrato.
Eccovi “Come Yu Kung rimosse le montagne”.
Un’antica favola cinese, intitolata COME YU KUNG RIMOSSE LE MONTAGNE, racconta di un vecchio che viveva tanto, tanto tempo fa nella Cina settentrionale ed era conosciuto come il “vecchio sciocco delle montagne del nord”. La sua casa guardava a sud e davanti alla porta due grandi montagne, Taihang e Wangwu, gli sbarravano la strada. Yu Kung decise di spianare, con l’aiuto dei figli, le due montagne a colpi di zappa. Un altro vecchio conosciuto come il “vecchio savio”, quando li vide all’opera scoppiò in una risata e disse: ”Che sciocchezza state facendo!Non potrete mai, da soli, spianare due montagne cosi grandi”. Yu Kung rispose: “Io morrò ma resteranno i miei figli; morranno i miei figli, ma resteranno i nipoti, e così le generazioni si susseguiranno all’infinito. Le montagne sono alte, ma non possono diventare ancora più alte; ad ogni colpo di zappa. Esse diverranno più basse. Perché non potremmo spianarle?”. Dopo aver così ribattuto l’opinione sbagliata del vecchio savio, Yu Kung continuò il suo lavoro un giorno dopo l’altro, irremovibile nella sua convinzione. Ciò impietosì il cielo, il quale inviò alla terra due esseri immortali che portarono via le due montagne sulle spalle.
Nel 1976 la coppia di registi Marceline Loridan e Ioris Ivens hanno realizzato una serie di 12 documentari titolato appunto: Come Yukong rimosse le montagne.
Per realizzarlo hanno girato per 6 anni in lungo e in largo la Cina.
Sempre appassionati del grande continente Cina, nel 1989 realizzarono “”Io e il vento” alla ricerca del respiro della terra. –
MAMBRETTI ANNALISA è socia da due anni frequenta il corso di Feldenkrais e gli incontri di poesia, ci manda anche lei un suo contributo poetico.
Non so perché
non so scrivere del mondo
non riesco a comporre
rime su ciò che vedo
e che succede fuori.
Vivo la poesia
come baluardo
difesa torre
a ciò che mi sta attorno
è
il mio scudo
il mio artifizio
per stare a questo mondo
per non morire di banalità.
Non uso
la poesia per commentare
fatti o situazioni
resto nel liquido
delle mie emozioni
tra terra sogno
amore e divinità.
QUELLO CHE SI FA PER NON PENSARCI
Si guardadalla finestra l’orizzonte
per non pensarci
immaginando un sole
rosso sulla linea blu del mare
onde leggere ritmiche e tranquille
il profumo dei cedri .
Si osserva un quadro
nei suoi colori accesi
le forme di bellezza
le composizioni armoniche
i bei ricordi.
Per non pensarci
si eseguono gesti meccanici
per riempire il quotidiano
per non farci trovare impreparati
mal vestiti spettinati
o con la casa in disordine.
Si apre un libro
uno a caso tanto non si legge
lo si tiene aperto così
per le parole che ci scorrono davanti
come acqua che lava come mano che asciuga.
Si finge molto con tutti
per non pensarci
si sta sempre bene
si parla del tempo
del più del meno
si parla meno.
MARINA MARIANI ci manda questa riflessione, Marina fa parte delle socie del direttivo da molti anni, sempre presente agli incontri di letteratura, poesia e mostre apporta il contributo volontario di gestire il Laboratorio di Lettura condivisa
Stiamo sperimentando e vivendo tempi non dettati dalla consuetudine che mettono ciascuno/ ciascuna di noi, nella semplicità del quotidiano, di fronte a grandi temi etici e sociali. Temi come il trascorrere del tempo, l’accettazione dell’altro anche prossimo, l’accoglienza del diverso in tutte le sue forme. Siamo chiamati a compiere scelte individuali e collettive che ci inducono a riflettere su quali rapporti abbiamo con la malattia, con l’impotenza, con l’incertezza, l’ansia e la paura. Temi che ritroviamo nel romanzo Le tre del mattino di Gianrico Carofiglio. Romanzo di formazione scritto sul filo del tempo e dello spazio sia geografico sia interiore. Un’indagine psicologica in puro stile noir. Vi si ritrovano alcuni temi cari all’autore: il trascorrere del tempo, l’incompiutezza,,l’importanza delle parole e la ricerca del filo perduto di un pensiero che è scommessa di vita. Nella storia a cui si ispira il libro (si basa su fatti realmente accaduti) un padre e un figlio si trovarono a trascorrere due notti insonni a Marsiglia. L’azione si concentra tutta in una notte che diventa il deus es macchina di una trasformazione inattesa dove all’improvviso si vede il mondo con altri occhi. Buona lettura e a tutti/ tutte nuove epifanie.
da LAURA MODINI esperta di Cinema a regia femminile, con Marina Mariani tiene gli incontri di Due Passi nel Giallo, è una socia fondatrice di Apriti Cielo
Questa mattina alzandomi e passando davanti alla libreria il mio sguardo si è fermato su un piccolo libricino: Angeli – poesie di Emily Dickinson. L’ho preso e aperto pag. 95. mai parole sono così appropriate.
“C’è una solitudine nello spazio
Una solitudine nel mare
Una solitudine nella morte, ma queste
Sono folla
Confrontate con quell’area più profonda
Quell’intimità polare
Un’anima al cospetto di sè stessa
Finita infinità –
Questa poesia ci arriva da Zina Borgini che fa parte del gruppo LA STANZA DELLA POESIA
IL NEMICO CORONATO
Il campo visivo si è ristretto
dalle finestre di casa vedo
solo fiori piante che germogliano
e tetti.
Non vedo le strade
piano alto e cornicione ampio
limitano lo sguardo.
Abbondante il tempo
per dormire, mangiare,
e pensare.
Mi piacerebbe
se fosse una lunga vacanza
invece è forzata latitanza,
Tutto si è fermato all’improvviso
come fu per una
bella addormentata
almeno lei si punse
e sentì dolore,
io invece non mi lamento
sto benone.
Al di la del vetro però
c’è gente che combatte
un nemico coronato
ma privo di regno
affannato cerca un domicilio
ogni tanto ne trova uno
dove sostare.
Se non fossevirulento
passerebbe inosservato
invece è stato definito letale.
L’ordinanza è chiara
lavare, lavare, lavare
non abbracciarsi, non baciare
tenere la distanza
soprattutto non uscire da casa.
Ecco perché trascorrerò
tanto tempo a guardar fuori
dalla finestra dove vedo
solo fiori, piante che germogliano
e tetti.
Zina 8 marzo 2020
Proseguiamo tenervi compagnia con due racconti su cui stanno lavorando le/i partecipanti al corso di scrittura tenuto da Walter Pozzi, presso la nostra sede. Il corso è partito da poco e abbiamo dovuto interromperlo. Tutti sono ansiosi di riprenderlo perchè affascinati dal Conduttore che è molto comunicativo
I GIORNI PERDUTI di DINO BUZZATI
Qualche giorno dopo aver preso possesso della sontuosa villa, Ernst Kazirra,rincasando, avvistò da lontano un uomo che con una cassa sulles palle usciva da una porticina secondaria del muro di cinta, e caricava la cassa su di un camion.
Non fece in tempo a raggiungerlo prima che fosse partito. Allora lo inseguì in auto. E il camion fece una lunga strada, fino all’estremaperiferia della città, fermandosi sul ciglio di un vallone.
Kazirra scese dall’auto e andò a vedere. Lo sconosciuto scaricò la cassa dal camion e, fatti pochi passi, la scaraventò nel botro; che era ingombro di migliaia e migliaia di altre casse uguali.
Si avvicinò all’uomo e gli chiese: “Ti ho visto portare fuori quella cassa dal mio parco. Cosa c’era dentro? E cosa sono tutte quelle casse?”
Non sai? Sono i giorni”.
“Che giorni?”.
“I giorni tuoi”.
“I miei giorni?”.
“I tuoi giorni perduti. I giorni che hai perso. Li aspettavi, vero? Sono venuti. Che ne hai fatto? Guardali, intatti, ancora gonfi. E adesso?”.
Kazirra guardò. Formavano un mucchio immenso. Scese giù per la scarpata e ne aprì uno.
C’era dentro una strada d’autunno, e in fondo Graziella, la sua fidanzata, che se n’andava per sempre. E lui neppure la chiamava.
Ne aprì un secondo. C’era una camera d’ospedale, e sul letto suofratello Giovanni che stava male e lo aspettava. Ma lui era in giroper affari.
Ne aprì un terzo. Al cancelletto della vecchia misera casa stava Duk, il fedele mastino che lo attendeva da due anni, ridotto pelle e ossa.E lui non si sognava di tornare.
Si sentì prendere da una certa cosa qui, alla bocca dello stomaco. Lo scaricatore stava diritto sul ciglio del vallone, immobile come un giustiziere.
“Signore!” gridò Kazirra. “Mi ascolti. Lasci che mi porti via almeno questi tre giorni. La supplico. Almeno questi tre. Io sono ricco. Le darò tutto quello che vuole”.
Lo scaricatore fece un gesto con la destra, come per indicare un punto irraggiungibile, come per dire che era troppo tardi e che nessun rimedio era più possibile. Poi svanì nell’aria, e all’istante scomparve anche il gigantesco cumulo delle casse misteriose. E l’ombra della notte scendeva.
IN CAMPAGNA di GUY DE MOUPASSANT
Le due casupole erano a fianco a fianco, ai piedi d’una collina nei pressi d’una cittadina balneare. I due contadini lavoravano duramente la terra infeconda per mantenere tutti i loro figli. Ogni famiglia ne aveva quattro. Davanti alle due porte adiacenti quella marmaglia brulicava da mane a sera. I due più grandi avevano sei anni e i due più piccoli circa quindici mesi: i matrimoni e poi le nascite erano capitati quasi simultaneamente, nelle due case.
Le due madri riuscivano appena a riconoscere i loro prodotti, nel branco; i padri, poi, li confondevano completamente. Gli otto nomi ballavano nelle loro teste, mescolandosi di continuo; e quando dovevano chiamarne uno, spesso gli uomini gridavano tre nomi, prima di azzeccare quello giusto.
La prima delle due case, arrivando dalla stazione termale di Rolleport, era occupata dai Touvache, che avevano tre femmine e un maschio; nell’altra casupola stavano i Vallin, con una femmina e tre maschi.
Tutti quanti campavano a stento di minestra, di patate e di aria aperta. Alle sette di mattina, poi a mezzogiorno e poi alle sei di sera, le massaie radunavano i loro bambini per dargli la pappa, come fanno le guardiane d’oche quando radunano le bestie. I bambini erano sedutiin ordine di età davanti alla tavola di legno lustrata da cinquant’anni d’uso. L’ultimo marmocchio arrivava con la bocca appena all’altezza della tavola. Veniva posata davanti a ciascuno una scodella piena di pane ammollato nell’acqua dov’erano cotte le patate, mezzo cavolo e tre cipolle; e tutta la fila mangiava. La madre badava lei stessa a rimpinzare il più piccino. Un po’ di carne in pentola, la domenica, era una festa per tutti; e il padre, quelle volte, indugiava a tavola ripetendo: “Ci metterei la firma a mangiare così tutti i giorni.”
Un pomeriggio d’agosto un carrozzino si fermò improvvisamente davanti alle due casupole e la giovane donna, che guidava, disse all’uomo che le era seduto accanto: “Guarda, Henri, quanti bambini! Guarda come sono carini, a rotolarsi nella polvere”.
L’uomo non rispose, abituato a simili espressioni di ammirazione che per lui erano un dolore e quasi un rimprovero.
Po irisalì sul carrozzino e ripartì di grande trotto. Ma la settimans seguente tornò, si sedette per terra, prese il bamboccio tra le braccia, lo imbottì di dolci e distribuì caramelle a tutti gli altri; giocò insieme con loro come una ragazzina, mentre suo marito aspettava con pazienza nel carrozzino.
La giovane donna aggiunse: “Bisogna che li baci. Oh, come vorrei averne uno, quello lì, il più piccino!”. E, saltando giù dal carrozzino, corse verso i bambini, prese uno dei più piccoli, quello dei Touvache e, sollevandolo fra le braccia, lo baciò appassionatamente sulle guance sporche, sui capelli biond iricciuti e impastati di terra, sulle manine che lui agitava per liberarsi di quelle fastidiose carezze.
Tornò ancora, fece conoscenza coi genitori, poi venne tutti i giorni, con le tasche piene di dolci e di soldi. Si chiamava signora Henri d’Ubieres.
Una mattina, appena arrivati, suo marito scese con lei; e senza fermarsidai bambini, che ora la conoscevano bene, entrò nella casa dei contadini. Costoro stavano spaccando legna per cuocere la minestra; si rizzarono sorpresi, offrirono da sedere aspettarono. La giovane donna, con voce interrotta e tremante cominciò: “Buona gente, sono venuta a prendere il più piccolo”.
I contadini, sbigottiti e senza sapere che pensare, non risposero.
Leiriprese fiato e continuò: “Non abbiamo figli: mio marito e io siamo soli. Lo terremo con noi… volete?”
La contadina cominciava a capire. Chiese: “Volete prendervi Charlot? Ah, no di certo!”
Intervenne allora il signor d’Hubieres: “Mia moglie si è spiegata male. Noi vogliamo adottarlo, ma tornerà a trovarvi. Se verrà su bene, come tutto fa credere, sarà il nostro erede. Se per caso dovessimo avere bambini nostri, dividerà alla pari con loro. Se invece non rispondesse alle nostre cure gli daremo, quando sarà maggiorenne, ventimila franchi, che saranno immediatamente depositati a suo nome presso un notaio. E, dato che s’è pensato anche a voi, avrete fino alla morte una rendita di cento franchi al mese. Avete capito bene?”.
La massaia si rizzò, furente: “Volete che vi vendiamo Charlot? No, certo, mai! Non sono cose da chiedersi a una madre. Mai!, sarebbe un abominio!”.
Il marito, serio e pensoso, non diceva nulla, ma approvava sua moglie con un movimento continuo della testa.
La signora d’Hubieres, sgomenta, cominciò a piangere e, voltandosi verso suo marito, con la voce piena di pianto, una voce di bambina i cui desideri sono sempre soddisfatti, balbettò: “Non vogliono, Henri, non vogliono!”
Fecero l’ultimo tentativo.
“Amici miei, pensate all’avvenire di vostro figlio, alla sua felicità, a…”.
La contadina infuriata gli troncò la parola: “Sappiamo tutto, abbiamo pensato a tutto, abbiamo capito tutto… Andatevene e non fatevi più rivedere da queste parti. Non è possibile pensare di volere portare via un bambino in questo modo!” La signora d’Hubieres, uscendo, si accorse che i più piccini erano due e fra le lacrime chiese, con la tenacia della donna caparbia e viziata che non vuole mai aspettare: “Ma l’altro bambino non èvostro?”
Touvasche padre rispose: “No, è dei vicini; se volete, andateci.” E tornò in casa, dove ancora risuonava la voce indignata di sua moglie.
I Vallin erano a tavola, mangiando lentamente fette di pane su cui spalmavano con parsimonia un po’ di burro che prendevano con la punta del coltello da un piatto collocato fra loro due. Il signor d’Hubieres ricominciò a fare le sue proposte, questa volta in modo più insinuante, con più precauzioni oratorie, con più astuzia.
I due contadini scuotevano la testa in segno di diniego;ma quand seppero che avrebbero avuto cento franchi al mese, si guardaronoperplessi, consultandosi con lo sguardo.Rimasero
a lungo in silenzio, torturati, esitanti. Infine la donna chiese:
“Che ne dici, marito?”Lui
disse con tono sentenzioso: “Mi pare che non sia da disprezzare.”
Allora la signora d’Hubieres, tremante di ansia, parlò dell’avvenire del piccino, della sua felicità e di tutto il denaro che avrebb potuto ricevere più tardi .Ilcontadino chiese: “Questa rendita di milleduecento franchi, sarà stabilita davanti al notaio?” Ilsignor d’Hubieres rispose: “Certo, fin da domani”.
La massaia che stava riflettendo, aggiunse: “Cento franchi al mese non ci bastano a farci separare dal piccolo; fra qualche anno potrà lavorare: ci vogliono centoventi franchi”. Lasignora d’Hubieres, che pestava coi piedi in terra per l’impazienza, li concesse senz’altro; e siccome voleva portare via subito il bambino, diede cento franchi di regalia mentre suo marito preparava un attestato. Il sindaco e un vicino, prontamentechiamati, fecero da compiacenti testimoni La giovane donna, esultante, portò via il marmocchio che strillava,come si porta via dal negozio il desiderato gingillo. I Touvache, sull’uscio, li guardavano andare via, silenziosi, severi, forse pentiti del rifiuto.
Non si sentì più parlare del piccolo Jean Vallin.
Ogni mese i genitori ricevevano dal notaio i centoventi franchi; ed erano in urto coi vicini perché la Touvache li copriva di contumelie ripetendo continuamente di porta in porta che bisogna essere proprio snaturati a vendere il proprio figlio, che era un orrore, una porcheria, una corruzione. A volte prendeva in braccio con ostentazione il suo Charlot, gridandogli, come se avesse potuto capire: “Io non ti ho venduto, io non ti ho venduto, piccolo mio. Io non sono di quelle che vendonoi figli. Non sono ricca, ma i figli non li vendo.” Pe anni e anni, ogni giorno fu così; ogni giorno grossolane allusioni erano sbraitate davanti alla porta, perché potessero entrare nella casa della vicina. La Touvache madre aveva finito per credersi superiore a tutte le madri della regione, perché non aveva venduto Charlot. Chi parlava di lei diceva: “Certo, avrebbe fatto gola a chiunque ma lei niente, s’è comportata da buona madre”.
La citavano spesso; e Charlot, che entrava nei diciott’anni, educato in questa idea, ripetutagli di continuo, si credeva lui stesso superiore ai suoi compagni, perché non era stato venduto. I Vallin campavano senza stenti, grazie alla pensione. Da questo veniva l’implacabile rabbia dei Touvache, restati in miseria. Il loro figlio maggiore andò a fare il soldato; il secondo morì; e Charlot restò solo a faticare col vecchio padre per dar da mangiare alla madre e alle due sorelle minori. Aveva ventuno anni quando una mattina una splendida carrozza si fermò davanti alle casupole. Un giovane signore, con una bella catena d’oro, scese porgendo la mano a una signora anziana, bianca di capelli. Costei gli disse: “E’ là, figliolo, la seconda casa”. Lui entrò nella stamberga dei Vallin come se fosse stata casa sua.
La vecchia madre stava lavando i grembiuli; il padre, infermo, sonnecchiava accanto al focolare. Tutti e due levarono la testa, mentre il giovane diceva: “Buongiorno papà, buongiorno mamma”. Idue si alzarono stravolti. La contadina, commossa, fece cadere il sapone nell’acqua e balbettò: “Sei te, figlio mio? Sei te, figlio mio?” Lui la strinse fra le braccia e la baciò, ripetendo: “Buongiorno,mamma”. E intanto il vecchio, tremante, diceva col tono calmo che non lo lasciava mai: “Così sei tornato, Jean?” come se l’avesse visto il mese prima. Dopo avere così parlato, i genitori vollero subito uscire per fare vedere il figlio al paese. Lo portarono dal sindaco, dal consigliere, dal parroco, dal maestro.
Charlot, in piedi sulla soglia della sua casupola, lo guardava passare. La sera, a cena, disse ai vecchi: “Dovete essere stati proprio stupidi per lasciare prendere il ragazzo dei Vallin!”. Sua madre rispose, ostinata: “Non volevamo vendere il nostro figliolo!” Il padre taceva. “E’ proprio una disgrazia essere stato sacrificato in questo modo”.AlloraTouvache padre disse, con tono incollerito: “Vorresti rimproverarciper averti tenuto con noi?” Il giovane rispose brutalmente: “Sì, ve lo rimprovero, siete dei buoni a nulla. Genitori come voi sono la disgrazia dei figli. Vi meritereste proprio che me ne andassi” L’anziana donna piangeva sul piatto. Gemette, seguitando a mandare giù cucchiaiate di minestra per versarne la metà: “Ammazzatevi per tirare su i figlioli…”. Il giovane disse, aspramente: “Avrei preferito non esistere, piuttosto di essere quel che sono. Appena ho visto quell’altro, mi sono sentito rimescolare il sangue, e ho pensato: Ecco, a quest’ora sarei così”.
Si alzò. “Sentite, credo che sarà meglio che non resti qui, perché ve lo rinfaccerei dalla mattina alla sera e vi farei fare una vita da cani. Perché, sentitemi bene, non potrò mai perdonarvelo!”. I due vecchi non parlavano, abbattuti e piangenti. Lui continuò: “No, sarebbe troppo dura, con questo pensiero in capo. Meglio che me ne vada a cercare fortuna in qualche altro posto!”.
Aprì la porta. Entrò un rumore di voci. I Vallin festeggiavano il figlio tornato. Allora Charlot picchiò col piede per terra e, volgendosi ai genitori, gridò: “Contadinacci, al diavolo!”E sparì nel buio.