I terreni di sabbia rimandano certamente all’effimero, allo scorrere del tempo: sia come sabbia fra le dita, che nell’accezione più concreta della sabbia nella clessidra. Ma rimandano anche a una spiaggia – che la poetessa, nata lontano dal mare, cominciava forse a conoscere nelle vacanze estive – e dunque al materno, al gusto del sole. Tutto questo nel libro (libro esile in apparenza, ma denso) c’è, a partire dalla prima sezione La mappa del cuore, dove significativamente quasi in ogni testo compaiono molto collegate tre immagini, tre campi semantici: uno legato al cibo o ai doni (il marzapane, i pasticcini, le leccornie, le vigne, la cannella dello strudel, la Sacher e i Krapfen) , uno legato alla preziosità (i gingilli, l’oro, l’argento, lo splendore degli altipiani); il terzo chiamato col diretto nome di madre o con il suo complementare, l’infanzia. Serenità apparente, forse venata di nostalgia. Ma già nella seconda sezione Le proporzioni degli oggetti l’acquerello (tecnica in cui l’autrice è esperta) si rompe in un’acquaforte, la casa si intravede in un chiaroscuro notturno alla Magritte; compaiono oggetti deformati come gli orologi di Dalì, la realtà si fa più inquietante, surreale, fra sogno e incubo. Alla solarità della prima sezione fa riscontro una luna scheggiata oppure obesa, sghemba, occhieggiante tra vasi di fiori e nature morte. Il mondo assume forme strane, eppure potrebbero essere le stesse strade, le stesse case di prima. Che è accaduto? E’ accaduto che Mariolina De Angelis ci accompagna in un viaggio di cui non vuole svelarci tutto il segreto, ma neppure vuole lasciarci nell’illusione che tutto resti uguale. Il viaggio è un viaggio nell’anima, che non nasconde la paura del passare del tempo e della solitudine (come sottolinea la prefazione di Gabriela Fantato) e quindi non mente sulla propria fragilità. Ma è un viaggio circolare, che proprio al centro del libro, la terza sezione sulle cinque, porta le poesia più legate alla relazione (il ricordo dell’uomo amato, il desiderio, il corpo, l’assenza) e che poi sembra risalire, superare il fondo del pozzo: ecco perché nella quarta parte, Unico approdo, sembra proprio che quell’infanzia da cui tutto è partito stia richiamando l’autrice e i suoi lettori: insistiti sono i richiami al tornare bambini (Come bambini/ con le loro minuscole orme, pag. 42; Si trema ai propri passi/ come ai primi/di quando si nasce , pag. 43). Il paesaggio è notturno e i contorni restano inquietanti, emerge l’ombra della vecchiaia in una poesia omonima, vista tuttavia con un filo d’ironia caricaturale (s’incurva a destra/ ondeggia a sinistra/ prosegue dritta/ senza sbagli, pag. 44). Con un po’ d’ironia, un po’ di gioco e molta tenerezza, ciò che potrebbe essere inquietante diventa quasi ludico: la luna è ossuta, ha il volto corrugato (nell’ultima sezione dirà che è “scavato”, approfondendo la personificazione), come in un disegno infantile; i fantasmi sono guerrieri nella notte, a metà tra spavento e avventura; il corpo fragile torna puerile. L’autrice ci ha ormai accompagnato al punto di ritorno di questo viaggio circolare che non riguarda solo lei e solo noi, ma tutta l’umanità di sempre: i fantasmi sono diventati angeli, ci confortano nell’orizzonte di un mondo dedicato alla comunicazione ma privo d’empatia (abissali distanze, leggiamo a pag. 55). E il libro si conclude con questo verso: scorre l’enigma della vita. Rinvia ancora alla sabbia che scorre, ma ci lascia in una sospensione, come se il ciclo fra passato e presente dovesse da un momento all’altro ricominciare. Come se il tempo stesso fosse un’illusione, come se nulla dovesse mai finire e anche i terreni di sabbia, anziché preparare insidie, potessero nascondere tesori.