VENERDI’ 10 GIUGNO 2016
ALLE ORE 18,30
La cosa più bella che ho scritto ….
Reading di letture testi delle partecipanti al corso di scrittura tenuto in Apriti Cielo!
da Laura Lepetit
leggono:
Coccia Antonella, Donatealla da Rech,
Rossella Giannotti, Maria Luisa Parazzini, Patrizia Puleio.
Segue buffet
I nostri corsi di scrittura
Antonella Coccia- Il mio gatto Carmine
Quando ero bambina vivevo in una città strana, che non capivo davvero e che sentivo spesso aggressiva. Bari in quegli anni, parliamo dei primi anni ’90, era una città piena di pericoli, nella quale era facile smarrirsi per un’adolescente. Avevo degli amici, ma erano strani anche loro, parlavano in un modo strano, si comportavano in un modo strano e si vestivano pure in un modo strano. In quel periodo i miei genitori c’erano poco e quando c’erano era come se non ci fossero e io cercavo qualcuno con cui trascorrere i lunghi pomeriggi dopo la scuola.
Nel vicino stabile c’era una gattara (a quel tempo non sapevo che si chiamassero così). Una ragazza giovane, ma più grande di me, che allora avevo credo 13 o 14 anni. Si chiamava Maria ed era vestita sempre in modo sciatto e trascurato, puzzava di gatto, come puzzava il luogo dove passava la maggior parte delle sue giornate, un cortiletto di cemento sul retro dello stabile in cui abitava.
La prima volta che ho visto Carmine, miagolava sonoramente vicino alle gambe di Maria. Mi ispirò subito tanta simpatia. Zompettava velocemente e miagolava in modo squillante, si strusciava mollemente sulle gambe e faceva le fusa. Era un gatto giovane e forte e per questo ho dato per scontato che fosse un maschio, mi sembrava proprio un maschio. Ma non era così. Carmine, in realtà, era una femmina. Anche quando l’ho scoperto mi sembrava strano considerarla una femmina, continuava a comportarsi da maschio: graffiava, soffiava, mordeva e scavava delle buche. Non so dire cosa fosse di preciso quello che faceva, ma sono certa che sembrasse un maschio.
Io e Carmine siamo stati amici per diverso tempo. Lei saltuariamente viveva anche a casa mia, non le piaceva molto, mia madre la chiudeva in veranda, ma a lei piaceva scavare le buche nei vasi grandi del soggiorno e arrampicarsi sulle tende. Abitavamo al sesto piano e lei scendeva giù dalle scale da sola, se ne andava in giro per il cortile, poi quando arrivava l’ora di pranzo la chiamavo: “Carmine, Carmine, Carmine…” e lei arrivava tutta contenta per mangiare. Divorava delle frattaglie e poi se ne tornava in cortile alla ricerca di qualcosa da fare.
Un giorno caldo d’estate, era già finita la scuola, dopo l’ora di pranzo ero scesa giù in giardino per portare il pranzo a Carmine. Faceva un caldo torrido, di quelle estati che dormi con la finestra aperta e la tapparella alzata tutta la notte e la mattina dopo ti svegli tutta bagnata e con il torcicollo. Di solito la chiamavo un paio di volte e poi sentivo un rumore tra i cespugli e compariva la sua testolina per controllare se effettivamente ero io a cercarla, ma quel pomeriggio tardava ad arrivare e non si sentiva ancora alcun rumore.
Ad un certo punto ho visto Tonino che da lontano mi veniva incontro. Tonino era un tipo losco, tutti sapevamo che era un eroinomane e lo capiva subito anche chi non lo conosceva. Aveva sempre lo sguardo rivolto verso l’alto e la bava agli angoli della bocca e lo strabismo non lo aiutava a sembrare lucido. Biascicava qualcosa di incomprensibile, credevo volesse la solita elemosina e mi limitai allora a non rispondere.
Avanzava verso di me con quell’andatura incerta, che sembrava stesse per cadere da un momento all’altro. “Ce l’hai cento lire?” “Dai solo cento lire!” “E che cazzo, dai, solo cento lire!” Io non lo guardavo neanche in faccia, non proferii parola, cercavo solo di capire come evitarlo dal punto in cui ero, ma mi accorsi subito che non sarebbe stato possibile. Dovevo per forza passargli accanto. Avrei potuto tornare indietro sui miei passi, lo avrei senz’altro lasciato indietro, mi sarebbe bastato un passo svelto per seminarlo, ma avevo escluso l’opzione in considerazione del fatto che temevo mi avrebbe insultata e presa a male parole gridandomi dietro e io mi sarei vergognata immensamente se tutti i condomini avessero sentito l’inconfondibile voce di Tonino gridare “Antonè e checcazzo cento lire ti ho chiesto!!”.
Decido di passargli accanto. Sguardo basso, passo svelto, mani in tasca. Trattenevo il respiro perché niente del mio corpo potesse lasciare intendere che anche solo per un momento avrei potuto fermarmi a parlare con lui. Passo veloce, velocissimo e senza respirare gli passo accanto. Ma Tonino non sta in piedi e traballa e il suo braccio sfiora il mio e io mi sento morire di paura e lui per quell’impercettibile movimento che faccio con il mio braccio per scansarlo dal suo, lo capisce. Tonino, che non sta in piedi, che traballa, strabico e che sembra un morto che cammina, capisce che io ho più paura di lui.
Mi afferra per il braccio e mi tira verso di sé e appiccica la sua faccia alla mia, sentivo la puzza del suo alito, il tanfo di sigaretta e dello sballo e la bava che quasi mi bagnava. Sentivo la sua puzza di sudore acido e vecchio, come quello dei vagabondi quando li trovi sull’autobus. Mi veniva da vomitare. Mi dice “Antonè, damm’ nu’ bacc’”. Io rimango impietrita. Sento le gambe molli che non mi reggono più. Mi scappa improvvisamente la pipì. Mi si secca la gola e non ho più la saliva in bocca. Non riesco a respirare e non riesco neanche a tenere gli occhi aperti, tanto quella vicinanza mi atterrisce. “Antonè, t’ so ditt’ damm’ nu bacc’”. A quel punto tutto diventa improvvisamente scuro, come quando durante una bella giornata estiva si prepara ad arrivare un temporale, quando il cielo si riempie di nuvole scure e la luce diventa strana, come all’imbrunire, anche se è pieno giorno.
Sento un rumore nel cespuglio vicino a noi, Tonino non se ne accorge, mi tira ancora più vicina e mi tocca un seno con una mano, ma fa finta che sia per caso. Poi all’improvviso grida forte “Che cazz’ è??” e mi strattona. Io apro gli occhi e vedo Carmine che si era arrampicato sulla sua gamba ed aveva infilato le sue unghie nei jeans sporchi, come quando si arrampicava sulle tende di mamma.
Carmine si prende un calcione da Tonino che lo fa volare al di là della strada, io a quel punto sono libera, ricomincio a camminare velocissima, col passo più svelto della mia vita. Carmine mi insegue, miagolando disperatamente più che per il calcio, per la fame. Ma io il mio piattino di frattaglie non sapevo più dove fosse. Non c’era più quella luce strana, faceva solo un caldo infernale.
Donatella Da Rech TU E GLI ANIMALI.
La sindrome della pagina bianca. In questo momento il mio cervello è vuoto e non brilla certo in
fantasia. D’altra pare non sono una scrittrice di romanzi ma solo una descrittrice di procedure.
Però l’argomento è interessante, e mi è congeniale. Sono sempre stata attratta ed affascinata dal
mondo animale, in particolare dai cani. Vorrei averne uno, ma, come tanti lavoratori single, è
impossibile, così la mia passione devia verso i cani altrui.
E’ più forte di me, non mi trattengo, se incrocio un cane cerco di accarezzarlo, di farci amicizia.
I cuccioli sono quelli che danno maggiori soddisfazioni. Quelli di grosse dimensioni poi, sono uno
spasso. Sono degli entusiasti. Appena gli dai confidenza ti si gettano letteralmente tra le braccia.
E gli umani appesi all’altro lato del guinzaglio, quando non vengono trascinati, puntano i piedi in
un disperato “tiro alla fune” cercando di sorridere, ma in realtà pensano “perché diavolo non ti
fai i fatti tuoi “.
Ebbene sì, sono una tampinatrice di cani seriale.
I locali pubblici, tipo il bar dove faccio colazione, sono l’ideale per questi approcci.
Se entra qualcuno con il suo cane, immediatamente il mio sguardo viene magnetizzato dall’animale
e scatta la tattica di avvicinamento.
Mi avvicino con apparente indifferenza e la brioche in mano, e con nonchalance mi porto a
portata di naso del cane, gli sorrido, lui scodinzola, ed è fatta. Lo posso accarezzare.
Ho avuto due cani nella mia vita, entrambe (due femmine) adottate quando ancora vivevo in
famiglia e la gestione era possibile grazie anche a mia madre.
Adesso sono stata adottata da due gatti. I gatti sono diversi ma ugualmente affascinanti, possono
essere bonari e molto zen, come il mio vecchio Micio, oppure umorali e casinisti come Micia, ma
sicuramente più adatti, ed adattabili, ai ritmi di vita ed alle assenze di una single.
Micia mi ha agganciato un giorno di novembre di due anni fa. Pioveva ed ero in giro a passeggio
con il cane della mia amica in una stradina di campagna in Valtellina.
Si è affacciata dal muretto basso di una recinzione, un esserino piccolo e arruffato dalla pioggia, si
è inarcata e col pelo ritto ha soffiato in direzione del cane che tentava di annusarla. Aveva a mala
pena 30 giorni di vita, ed un coraggio che non ti aspetti da un esserino così piccolo.
L’avevano buttata lì, sola, a morire di stenti, visto che di certo un micio di quell’età e dimensioni
non avrebbe potuto cavarsela senza mamma gatta. Così l’ho infilata nella giacca e da allora è
sempre stata con me.
Quel suo gesto di coraggio le ha procurato una vita comoda, amata, coccolata e mai maltrattata.
Eppure dentro è rimasta selvatica e incredibilmente diffidente verso gli esseri umani, un terrore che
la fa correre a nascondersi quando ci sono visite a casa, per riapparire poi solo quando è sicura
che siamo tornate ad essere solo noi.
Tutto il contrario di Micio che ho trovato, ormai quasi dieci anni fa, sulla porta di casa, pesto ed
affamato. Lui era già adulto quando è iniziata la nostra convivenza.
In effetti non so quanti anni abbia esattamente, come non so come abbia perso una zampa
anteriore. Di sicuro deve averne passate tante. Eppure lui è fiducioso fino all’indifferenza con gli
umani che entrano nel suo territorio e non lascia di certo che la presenza di estranei in casa turbi
la sua routine quotidiana.
Mi ritrovo a pensare che, in fondo, assomiglio a Micia più di quanto mi faccia piacere ammettere,
ed invidio la calma e l’opportunismo di Micio. Come vorrei essere capace di vivere con un
centesimo della serenità che da dieci anni lui tenta di insegnarmi, senza le montagne russe delle
mie emozioni, desideri e sentimenti.
Ma tant’è, forse è vero solo a metà che assomigliamo ai nostri animali.
Rossella Giannotti LA VEGGENTE
La sua mano stringeva nella tasca del giubbotto il ritaglio di giornale che, da quella mattina, aveva dato un senso alla sua giornata: era una offerta di lavoro allettante e, dopo aver telefonato per fissare una appuntamento, non faceva che prepararsi all’incontro del pomeriggio.
Leonardo era proprio figlio del suo tempo: una laurea in antropologia culturale incorniciata nella sua stanza e nemmeno uno straccio di lavoro che gli consentisse uno stipendio decoroso a fine mese.
Ma questa volta… sentiva che questa volta ce l’avrebbe fatta, sarebbe stata l’occasione attesa!
Camminando a passo veloce per la solita passeggiata del mattino, si era trovato a passare davanti alle roulottes e ai tendoni del Luna Park che, da qualche giorno,aveva piazzato tende e ruote poco lontano da casa sua, proprio nell’ampio spazio libero davanti alle scuole elementari, luogo che il Comune destinava volentieri agli spettacoli circensi o ai Pizzaluga, il gestore di un attrezzato parco giochi, che spesso si fermavano per qualche settimana, per la felicità di bambini e ragazzi, che non sarebbero mai scesi dal bruco-treno o dai seggiolini volanti della giostra.
Le luci sopra i baracconi erano già tutte accese, anche se non era ancora mezzogiorno, e qualche ragazzotto sfaccendato si stava divertendo al tirassegno, a sparare come un uomo vero, un cacciatore anzi, meglio, un soldato….beng, beng, centro, colpito, morto…!
Leo era rimasto pensieroso a guardare, poi una casetta allegra e luccicante aveva richiamato al sua attenzione: era un camper particolare, guarnito con vasi di geranio ed edera, le tendine alle finestre fermate con colorati fiocchi di tulle, e una grande insegna davanti alla scalinata:” Madame di Tebe, vede e prevede!”.
Non si era accorto, Leonardo, che una donna gli si era avvicinata e, quando lui si era voltato, ne aveva
incontrato lo sguardo sorridente: “Entra, bel giovane, ti predico il futuro, vieni coraggio, ti costa poco e saprai tutto!”.
Lui era rimasto perplesso solo per una frazione di secondi, era troppo contento, quella mattina, e non avrebbe potuto sentirsi dire che cose belle!
“Si paga in anticipo… sono dieci euro.” Stava dicendo professionalmente lei. Ed era stato proprio nel mettere mano al portafoglio che il ritaglio di giornale gli era caduto dalla tasca. La donna era stata un lampo: si era chinata e aveva raccolto il foglietto, certamente non lasciandosi scappare l’occasione per una occhiata rapida ma attenta alle righe dell’annuncio, evidenziate da un pennarello rosso.
Continuando a sorridere gli aveva teso il pezzo di pagina e aveva intascato veloce i soldi richiesti; poi l’aveva preceduto, entrando nel suo “studio”.
Adesso Leonardo la stava osservando con interesse: era una bella ragazza, vestiva una lunga sottana di un rosso acceso, sulla quale sembravano cadute pennellate di margherite bianche e gialle; una camicetta bianca arricchita da uno scialle nero dalle lunghe frange dava rilievo a un collo niveo, che ricordava certi quadri di Modigliani; bassi sandali aperti lasciavano vedere dei piedi delicati e impreziositi dalla lacca vermiglia delle unghie.
Insomma,non sembrava proprio la veggente da manuale, vecchia arcigna come te la saresti aspettata: era l’incarnazione di una giovane gitana riprodotta su una stampa francese dell’Ottocento che aveva visto sfogliando una raccolta del Figarò Illustré trovato nella libreria di suo padre. E Leonardo sorrise, entrando nel regno di questa splendida Sibilla!
Dopo qualche scenografica coreografia per entrare nel discorso, la giovane,seduta davanti a una sfera di vetro trasparente da cui aveva fatto scivolar via la protezione di un telo di raso ricamato con fili dorati, aveva parlato : certamente lui, Leonardo, non aveva lavoro, anche se era un ragazzo colto (forse aveva studiato all’Università?…) ma quella giornata sarebbe stata certamente positiva per il discorso lavorativo, c’erano segni, evidenti, inconfutabili, che il suo destino sarebbe cambiato…il futuro gli avrebbe riservato una bella sorpresa, nel pomeriggio,finalmente avrebbe realizzato il suo sogno…. E sorrideva sempre, anche mentre lo stava congedando, dopo pochi minuti.
Ma, proprio mentre Leonardo era sul primo gradino, si era sentito richiamare dalla donna, rimasta seduta davanti alla sua palla di vetro; era rientrato e, guardando la giovane, aveva trovato davanti a sé un viso spaventato, preoccupato, due occhi spalancati lo fissavano imploranti: “ Non andare, rimanda, non oggi…
Stai attento, stai attento al numero 60, non ci andare….!!!!” aveva quasi gridato la veggente.
Leonardo si era sentito scombussolare: il suo cuore aveva preso a battere forte, le sue mani stavano tremando, ma il suo cervello aveva rimesso tutto in riga: aveva sorriso con un po’ di sufficienza e aveva mandato, con la mano, un gesto di saluto alla donna.
Poi era sceso e, a passo veloce, era rientrato sulla strada, lasciandosi Luna Park e baracconi alle spalle, volendo solo dimenticare quelle ultime parole e rientrare a casa, per prepararsi al colloquio del pomeriggio.
Non avrebbe potuto andare meglio: stava chiudendosi alle spalle la porta degli uffici della Casa Editrice dove aveva sostenuto il colloquio e gli sembrava di sognare: avevano valutato il suo curriculum e gli avevano chiesto cosa ne sapesse di editoria; poi il discorso era spaziato sulle sue conoscenze letterarie e qui lui si era completamente rilassato e aveva sostenuto una dotta e spigliata dissertazione su nuovi e vecchi autori per quasi un’ora. Il tempo era corso così veloce che, quando lo avevano accompagnato, complimentandosi con lui, e rassicurandolo che sarebbe stato contattato a giorni per dare inizio a un periodo di prova, quasi non si era accorto che il pomeriggio stava cedendo il posto alla sera….si era fatto tardi!
Nell’uscire dal portone di quella strada che lui già vedeva come il suo futuro percorso quotidiano, Leonardo aveva lanciato una rapida occhiata alla facciata: viale Monte Nero, al numero 60. Sessanta, sessanta…. attento al numero sessanta! Ma cosa ne sapeva quella, di pronostici, previsioni e fandonie varie…! Il 60 di Viale Monte Nero sarebbe stato il suo futuro, lì avrebbe lavorato e forse fatto carriera… Leonardo si sentiva allegro, leggero: si sentiva felice!
Stava raggiungendo Porta Vittoria per aspettare l’autobus che l’avrebbe portato verso via Plinio, dove aveva parcheggiato la sua auto. Una volta assunto, avrebbe dovuto organizzarsi coi mezzi pubblici, ma era una zona centrale e ben servita, e da Sesto il centro di Milano era ormai a un passo.
La sua mente rincorreva le parole scambiate in quell’ufficio nel pomeriggio, intanto aveva sentito sferragliare il 33 che girava dietro di lui verso Viale Piave.
Certo erano stati gentili, lo avevano messo a suo agio e, a lui, per una volta, le parole non erano venute meno. era proprio orgoglioso di sé, di come era stato capace, bravo….
No, non aveva sentito la frenata, non aveva visto, mentre si portava verso la banchina in mezzo a Corso Ventidue Marzo, non aveva visto arrivare il muso enorme dell’autobus, di quell’autobus su cui avrebbe dovuto salire.
E mentre lui era steso, le gambe scosse dagli ultimi guizzi di vita, l’autista, che era riuscito a fermare il mezzo solo dopo essere passato sopra con tutta la lunghezza del bus sul corpo di quel giovane che gli si era parato davanti, stava accorrendo sconvolto presso quella massa informe, a terra, adesso immobile.Un braccio era allungato scomposto e mostrava una mano che serrava un piccolo ritaglio di giornale, che si andava via via tingendo di rosso, rosso come una gonna, come le unghie di un piede…
L’autista della 60, abbandonata con le portiere aperte poco più avanti, stava singhiozzando disperato.
Marialuisa Parazzini, aprile maggio 2016
Ho sempre pensato fosse un lusso. Da noi non si usava: Natale, il pranzo della Prima Comunione, arrivare perfino alle vacanze d’agosto, erano le mete che ci si concedeva, con timore ed orgoglio comunque. Quella l’idea del poco futuro, il poco ambito: la partita allo stadio la domenica pomeriggio e l’attesa della ripresa sportiva al tramonto, in bianco e nero, davanti al televisore, la coscienza a posto, riuniti per ricominciare la settimana di fatica e risparmio. Limiti stretti, come le sponde dei fossi sotto i pioppi, vicino alla casa dei nonni.
Lo spazio del futuro era un pacchettino di soldi di carta ripiegati nel cassetto del comodino di mio padre: gli extra, si chiamavano. Per le emergenze, belle e brutte.
Vedere il futuro, supporre che ci sia. Credere che ci sia. Di fronte al futuro mi sento anche oggi disarmata: un fronte da cui ottenere qualcosa combattendo? Un orizzonte dove appoggiare i sogni e aspettare che facciano spuntare qualche foglia?
Temere che ci sia un futuro, perché si veste sempre di scura nube, perché scarta il tuo campo visivo e lo senti arrivare alle spalle e allora preferisci farti pesante, riempiendo le tasche di pietre e decidere tu, se farlo o non farlo arrivare?
Mi sento tagliata solo per la breve scadenza, brevissima anzi. Aspetto segnali dalla mimosa in vaso che ho comprato quest’anno, invece di quella recisa. Appoggiata alla stipite della finestra, da lei attendo indicazioni: che si possa progettare a distanza di una settimana, forse di una stagione, passare magari al prossimo equinozio?
E’così che sono diventata grande e oltre adulta, di colpo non ragazza. Col futuro sempre lento ad accendersi. Mi pento a volte di non aver supposto, di non avere progettato se non in forma omeopatica, di non aver avvertito solo mio il tempo davanti, da comporre strappo per strappo, per costruirmi qualcosa in più.
Qualcosa in più di che? Di quelle piccole cose che già mi fanno sentire sbadatamente molto viva? Del giorno sommato al giorno, dei profumi di tazze di te e di caffè, delle borse riempite e svuotate, dei fogli iniziati e interrotti dopo poche righe, delle continue intuizioni, intuite e rimaste rarefatte? L’eterno presente, mi piace. Il futuro non è per me. Non sono capace di godermelo, né di percepirlo.
Anche gli amori stanno fuori dal tempo: nessun azzardo, nessun rimpianto, una serie infinita di fermo immagine. Tutto lontano, tutto vicino. Un ritmo interiore scandito sul posto. Il vuoto può arrivare già oggi, già ogni oggi. E arriva molte volte, per altro.
In realtà dal mio futuro mi aspetto di poter ricominciare da dove ero rimasta: un lungo spazio dietro alle finestre, dove stanno molte storie che aspettano di essere raccolte e qualcuno a cui poi raccontarle. La ricerca di un mondo fuori dal tempo che conduca a quel salotto, fuori moda ma perfetto, borghese forse, ma desiderato, dove unire Ragione e Sentimento, dove essere una donna senza età, i cui figli e fidanzati, mariti madri e padri stanno e ritornano, e dove io possa guardarli essere, senza troppo stupore.
Un futuro dove non chiedermi a che punto io mi trovi, trasportata su un cerchio senza inizio né fine, poggiato su un balcone tra le ortensie, un luogo ricevuto in dono, immeritato, dove possa non pensare a quale fortuna mai sia.
Patrizia Puleio – Ricordi (un’autobiografia)
Dicono che sia l’estate più calda del secolo.
Dalla finestra si vedono solo le cime delle magnolie, che stanno fiorendo. Fiori grandi, bianchi, carnosi. Sono immobili nell’aria ferma, sembra persino che stiano sudando anche loro. Sono indifferenti al traffico che si sente come un sottofondo lontano, all’andirivieni della gente che cammina, entra, esce, sale le scale, percorre i lunghi corridoi dove sembra di sentire un momentaneo refrigerio. Indifferenti alle grida improvvise, alle grida prolungate, agli scoppi di risa, ai pianti liberatori.
Sono le tre meno un quarto del pomeriggio. L’ora più calda di una giornata già caldissima.
Proprio quando non ce la fa più, quando crede di morire, quando piangendo chiede, implora di morire, finalmente, finalmente tutto finisce, tutto inizia, ecco, eccolo, ce l’ha fatta, sta uscendo, brava, eccolo qua, è nato! è nata è una femmina, eccola guarda è nata!
Sono nata.
La mente non si sceglie i ricordi.
Sono autonomi, arrivano quando vogliono loro, e soprattutto arrivano quelli che decidono di arrivare. Non i più importanti, non i più piacevoli, non quelli che contano. Magari sono proprio quelle più insignificanti, le più banali, le cose che la mia mente ha deciso, oggi, di ricordare.
Mi ricordo i giochi, i libri, e le figure dei libri.
Il libro con i grandi fiori e le foglie di cui sono stampati in neretto solo i contorni, e bisogna colorarli, e sono seduta al tavolo del tinello, intenta a disegnare le venature con le matite verdi, di tre tonalità diverse. Sono concentrata, ascolto distrattamente la radio nell’angolo, scelgo tra le matite sparse sul tavolo, tempero quelle un po’spuntate, mentre penso a quali colori usare ne tengo una in bocca, mordicchiandola piano, ha un buon sapore.
Eccomi accovacciata sotto quello stesso tavolo. C’è una pesante tovaglia che ricade fin quasi a terra e fa da riparo, da tana, e lì sotto posso scribacchiare foglietti che piego e nascondo sotto il piano del tavolo, c’è una specie di cassetto segreto che solo io conosco. Nessuno mi vede, qua sotto, nessuno mi disturba. Posso stare tranquilla e zitta, ed ascoltare i discorsi che si fanno sopra la mia testa, o ascoltare quelli che faccio io, dentro la mia testa.
Oggi è giovedì.
“ ricordati che oggi viene tua figlia,eh!”
Eccola qua, mi bacia, mi fa mille domande. A volte riesco a risponderle, indovino persino le risposte giuste, a volte. Lei cerca in tutti i modi di far lavorare la mia mente. Mi chiede di quando è nata. Io racconto qualcosa. Lei sembra soddisfatta, poi ci ripensa : “ma non è possibile, io sono nata a gennaio! L’altra volta mi hai detto che nevicava!”
Poi vede che sono mortificata, dice:” ma guarda che sei tu che sei nata a giugno, cos’è, ti ricordi di quando sei nata tu e non di quando hai messo al mondo me?” Ride.
Rido anche io, per farla contenta.