VENERDÌ 12 MAGGIO ORE 18

INCONTRO CON

Maria Cannata e il suo libro:

LA LUNA E LA FIGLIA CAMBIATA

gabriellieditori

Introducono Grazia Emma  Biraghi e Giuliana Savelli.

Letture di Marilù Parazzini

 

La luna e la figlia cambiata di Maria Cannata, edito da Gabrielli. Un testo molto speciale che ha suggerito interpretazioni colte, profonde, nelle diverse associazioni culturali, una narrazione toccante che, nei gruppi di lettura, ha mosso affettività, riflessioni. Forse semplicemente perché è un lungo racconto che sa parlare al bambino che è in noi e chiede di essere accolto, ascoltato, confortato. Del resto ogni adulto, insegna Freud, convive con il bambino che è stato. E dunque in quella Bambina, protagonista della storia, ci si è tutte in qualche modo riconosciute. Il suo vissuto tormentato ci ha messo emotivamente in fibrillazione, ha avuto la capacità di disseppellire ricordi, pezzi di vita importanti anche della nostra biografia.

Per chi non avesse ancora letto il libro, in estrema sintesi si tratta della vicissitudine di una bambina che per crescere, per guadagnare l’adultità e orientarsi nel mondo, sente l’urgenza di recuperare la propria storia, per sapere chi è ha la necessità di rimettere insieme, di ordinare le tessere di una vicenda dolente. Per aprirsi al futuro e configurare degli orizzonti di esistenza possibile, ha bisogno di comprendere, di confrontarsi con un rapporto penoso, quello con una madre terribile perché malata, trasformata negativamente dalla malattia mentale. Una madre alla quale ci si rivolge ancora con il Voi, una relazione chiusa in un rancore antico. Occorre capire per salvarsi, per sanare le proprie ferite e per redimere le persone vicine, gli affetti che sono parti di noi, da cui non si può prescindere. Giunge il momento in cui bisogna fare i conti con se stessi, perché ne va della nostra vita. E’ uno scritto in forma epistolare, un lungo carteggio che la Bambina intrattiene con una fantomatica sorellina gemella. Lina impersona l’alter-ego, la parte migliore di sé, il modello con cui identificarsi. Scrivere lettere offre un rifugio, lenimento, è una via di fuga per non soccombere alla follia.

Il romanzo offre una scrittura potente che lavora sulla propria memoria, una sorta di recerche, un percorso introspettivo in quel mare profondo interiore che porta a far affiorare, aggallare paesaggi, figure, racconti, emozioni indelebili dell’infanzia. Basta gettare un sasso nell’acqua, i cerchi si allargano e come per incanto accade che una folla di ricordi, aneddoti, personaggi bussi alla coscienza, chieda di essere raccontata, per rivivere ancora una volta. Nel flusso della reminiscenza il tempo perde la sue scansioni; come negli orologi molli di Dalì, passato, presente si con-fondono. Tutto ritorna: la Madre, le zie, i cugini….e poi quella luna, quel mare. La conchiglia è presa come metafora di questo eterno ritorno delle cose, delle presenze.

E’ una scrittura che sceglie il dispositivo narrativo della fiaba, l’incanto di quel mondo fantastico che pesca i suoi contenuti nel mito, nelle antiche leggende della tradizione rievocate da Jana, la cuntatura. Mytos è la fola, l’esposizione pedagogica che insegna al bambino a crescere, ad affrontare la vita. Iscrivendosi, intrecciandosi nell’ordito delle grandi narrazioni del mondo, le esistenze da sempre prendono senso perché acquistano un alone di eternità. La fiaba è inoltre un buon farmaco per lo scrittore. Nelle sue trame la storia si spersonalizza, crea quella distanza emotiva che rende più sopportabile parlare del dolore. I personaggi poi, come avviene in questo libro, spesso non hanno nome. Non hanno bisogno di nome, di un riconoscimento, perché tutti ci rappresentano: la Bambina, la nonnina, la Madre, figure archetipiche che abitano nell’immaginario di ciascuno di noi. La fiaba attiva la fantasia e per la protagonista del romanzo diventa cura dell’anima, meccanismo di difesa dall’ossessività, modalità di sopravvivere alle circostanze più difficili. E’ la possibilità di crearsi una dimensione di estraneazione, un mondo in cui può rigenerarsi, aggrappandosi alla parte buona, vitale del sé.

E ancora è un testo che parla della terra, delle origini, e qui l’origine è rappresentata dal paesaggio arcaico dell’isola. Sullo sfondo il mare. Una Sicilia che -con i suoi forti profumi di zagare, gelsomini, basilico, rosmarino, con il suo patrimonio culturale, con la sua umanità- è tutta racchiusa in un cortile. Un cortile bagnato dal sole, dalla luce della luna, battuto dal vento, popolato di spiritelli. Qui una società semplice, fatta di personaggi strani, dai nomi strampalati, non attrezzata intellettualmente, ha però dalla sua l’arte del vivere, una sapienza pratica che ha imparato dall’oralità, dalla tradizione tramandata. Una comunità che ha così appreso a sopportare, giustificare le maledizioni inflitte dall’esistenza attribuendole alle demoniche figure dei miti (le donne de fora) e a trovare nella frequentazione dei riti una modalità più consolante per elaborare i passaggi cruciali della vita. Gente adusa quindi a sfamare i vivi e i morti. Ne è un esempio la consuetudine di lasciare la seggiolina sulla porta perché il defunto possa così ritornare nella casa. Una collettività capace di proteggere le persone più fragili.

La narrazione di Maria Cannata affascina perché sa usare una prosa particolare, una “prosa bizzarra”, come dice l’autrice, che indulge spesso nella cantilena per poi slittare nel registro della poesia. Attrae l’intreccio ibridato che impasta etimi, significati che vengono da lontano. Una costruzione colta della lingua che lavora sul cortocircuito di rimandi, assonanze, metafore per restituire potenza, valore salvifico alle espressioni verbali. E’ il sapere che le parole sono il pane dell’esistenza, dell’essere-con-gli-altri, senza le parole è il balbettio, il grido, l’urlo di Munch. Un registro di scrittura che rintraccia ed esalta la carica simbolica delle grandi immagini: il mare, la luna.

Questo lungo racconto trova, a mio avviso, la sua scaturigine in un senso profondo di pietas, di devozione religiosa per un’umanità arcaica dolente, stigmatizzata dalla povertà, alla quale la Bambina deve di essersi salvata, di avere imparato a spezzare il pane della condivisione. Il testo trova dunque il suo filo rosso nella compassione, nell’accezione usata da Etty Hillesum, del cum-patire, patire insieme alla propria gente, lasciarsi attraversare dalle emozioni quotidiane anche nelle condizioni più difficili. Nell’essere comunità.

Corinna Albolino