Venerdi 16 marzo 2018
ore 18,30
Inaugurazione mostra
“PIOGGIA”
di Isabella Spatafora
Il colore del silenzio
si è impadronito
della pioggia, del vento
e dei frammenti
sull’acqua che scorre
chiusura mostra venerdi 30 marzo 2018 ore 18,30
orari apertura 18,30-20,00 Mart. Mer. Ven, Sab. anche in altri orari su appuntamento telef. 3498682453
Il terribile è già accaduto
Gianluca Ranzi
In una xilografia del 1856 Utagawa Hiroshige ci ha lasciato una delle più struggenti rappresentazioni di un paesaggio fluviale sorpreso da una pioggia fitta e battente, un’immagine tanto potente da colpire una trentina d’anni più tardi Vincent Van Gogh, che la riprese integralmente in una tela oggi conservata nel suo museo di Amsterdam, aggiungendovi una cornice dipinta di gusto molto japoniste. In quelle immagini la pioggia è come se trafiggesse il ponte di Ohashi, scorporandone la consistenza volumetrica nel paesaggio circostante, e con lui le quattro figure che lo attraversano così come l’imbarcazione filiforme che solca silenziosa le acque del fiume.
Un’immagine del mondo fluttuante ci è data anche nell’opera di Isabella Spatafora, seppure alcuni elementi la portino lontanissima dall’ukiyo-e di Hiroshige. Nella grande tela dell’artista siciliana si assiste infatti allo spettacolo impressionante di una natura antropizzata che viene travolta da un fiume in piena e spazzata via dalla pioggia e dal vento, immersa in un silenzio sospeso e surreale. Paesi e città sono già, o sono sul punto d’essere, ridotti a rovine, natura e cultura diventano frammenti destinati ad esser trascinati via dalle correnti impetuose del fiume, mentre non si scorge più nemmeno un brandello di quella presenza umana che in Hiroshige e in Van Gogh cercava in qualche modo di proteggersi e di fronteggiare gli scrosci di pioggia.
Più di un secolo è passato tra queste diverse visioni e oggi l’immaginazione inquieta dell’artista si fonda su un gusto dell’azzardo di chi possiede la coscienza storica della caduta di quei grandi sistemi di pensiero che sono stati alla base del mondo di fine Ottocento e dell’inizio del Novecento. L’azzardo della Spatafora sta quindi nella sua assunzione di rischio a riflettere il mondo per ciò che è oggi, nella sua molecolare frammentazione, visto che, come scriveva Heidegger, “il terribile è già accaduto”.
Se il mondo è diventato un agglomerato di scorie e di teorie, di frammenti e di elementi spuri battuti da una pioggia incessante, ecco allora che la pittura stessa si fa fluviale, trasportando ed esprimendo quell’oscillazione peregrina, oltre le certezze artificiali delle gabbie dei grandi sistemi, che è l’oscillazione stessa del mondo, felicemente e fertilmente instabile. Qui e là si scorgono dei riferimenti alle Avanguardie Storiche, che sono i frammenti disciolti delle antiche certezze: una griglia neoplastica che ricorda Mondrian, uno sviluppo volumetrico che cita le case all’Estaque di George Braque del 1908 e di Horta de Ebro di Picasso del 1909, un fascio di luce sparato come nell’Aeropittura futurista di Tullio Crali.
Qui le immagini e le cose si fondono abbracciandosi in gorghi frenetici e arrovellati, scoprendo un’irresistibile casistica di anomalie in cui perdere lo sguardo e in cui moltiplicare i racconti possibili come davanti ad uno specchio in frantumi, quasi elementi prima solidi ed ora liquidi che si disperdono nella corrente fino a scomparire dalla vista. Ecco quindi, qui e là, la frammentarietà del quotidiano, la percezione di molte e fuggevolissime cose, la moltiplicazione delle rifrazioni, dei toni, dei nessi. E’ un linguaggio spezzato, molteplice e dissimmetrico, lineare e curvo, virtuosista e scarno, sognante e realistico insieme.
Se l’arte è una pratica di liberazione e di resurrezione, dove a ogni catastrofe corrisponde la rifondazione di un nuovo orizzonte di senso, qui un diluvio catartico restituisce l’immagine di un mondo complesso e frammentato in cui l’assenza dell’uomo, pur di fronte alle sue tracce, può valere come monito a riscoprire il valore della sua reale presenza, oltre i cimiteri muti dei suoi scarti tecnologici e delle sue vane chimere progressiste. In altre parole, la pittura, serbatoio del passato, diventa un maelstrom di frammenti fluidi per esprimere il presente e l’intensità dell’esistenza, a futura memoria.
ISABELLA SPATAFORA nasce in Sicilia nel trentacinque del secolo scorso, a Caltagirone.
Ricorda ancora l’immagine della maestra Mineo di prima elementare, moglie di un pittore che, accortasi delle sue capacità artistiche, a soli cinque anni la manda nelle altre classi della scuola a disegnare vari soggetti alla lavagna. Nello stesso anno, in privato, col maestro Sasso comincia a imparare a suonare il violino.
Verso i quindici anni, consapevole che la propria strada è l’Arte Figurativa, ritiene prioritario dedicarsi interamente alla propria inclinazione e decide così di lasciare la scuola civica di violino.
Sotto la guida dello scultore Gianni Ballarò, insegnante alla Scuola d’Arte per la Ceramica, impara a disegnare e modellare. Mentre frequenta la Scuola per la Ceramica, sostiene esami al Liceo Artistico di Palermo fino alla Maturità, ed è soprannominata “Luca fa presto”, espressione attinente al pittore seicentesco Luca Giordano per la velocità manifestata nell’esecuzione delle sue opere, dall’insegnante di nudo dal vero .
In quegli anni riceve il 2° Premio alla Prima Mostra Regionale Siciliana della Ceramica, e un diploma di merito “Ceramica contemporanea Principato di Monaco” rilasciato da S.A.S. Principe Ranieri III.
Espone anche opere a olio in una personale di pittura in un Circolo della sua città.
Insegna per cinque anni disegno in Sicilia, si sposa e ha una figlia. Si sente poi costretta a lasciare lavoro, famiglia e figlia (che poi riprenderà con sé), intraprendendo l’avventura del viaggio e del lavoro in fabbrica all’estero.
Rientra in Italia nel ’60 e si stabilisce definitivamente a Milano.
Frequenta per un corso di affresco e nudo dal vero alla serale del Castello Sforzesco. Lavora in uno studio di architetti e ingegneri e nel frattempo riprende l’insegnamento in diverse scuole medie dell’hinterland milanese.
Intraprende un percorso personale di pittura.
Con la nascita del Sindacato Artisti con sede al numero tre di via Solferino, partecipa a mostre collettive tra gli iscritti (chiamate accrochage dal critico d’arte Raffaele De Grada) e a mostre personali in Circoli Culturali di periferia. In quel periodo (1965), tiene una personale alla Galleria Pater di Milano presentata dallo stesso De Grada.
Il Sessantotto la vede impegnata attivamente in politica per alcuni anni